Come si muove e che cosa sceglie il pubblico del teatro contemporaneo? E quello del teatro ragazzi o del teatro sociale? Chi sono, cosa leggono i “pubblici connessi” e i lettori delle webzine? C’è una prospettiva “critica” quando parliamo di formazione del pubblico e di audience development?
Il 25 luglio 2015 a Kilowatt Festival di San Sepolcro si è tenuto l’annuale incontro di Rete Critica dal titolo Incontri ravvicinati. Lo spettatore tra opere, critica, formazione e nuove strategie comunicative-promozionali.
Tanti gli interventi della giornata: Laura Gemini (Incertezza creativa) Indagine sul pubblico di Rete Critica, Giovanni Boccia Artieri (I media-mondo) Social Theater: quali pubblici connessi per il teatro?; Oliviero Ponte Di Pino (Ateatro) Dispositivi di attivazione dello spettatore; Andrea Pocosgnich (Teatro e Critica) Lo spettatore e la critica online. Quantità e qualità della relazione; Rodolfo Sacchettini (Altre Velocità/Lo Straniero) Crisi economica e pubblico pagante; Elisabetta Reale (Krapp’s Last Post) Come cambia e si rinnova il pubblico in un teatro stabile: il caso Messina; Mario Bianchi (Eolo) Lo spettatore del teatro ragazzi; Maddalena Giovannelli e Francesca Serrazanetti (Stratagemmi) Diventare spettatori fra i banchi di scuola; Lorenzo Donati (Altre Velocità) Opere, audience development e critica.
Riproponiamo qui l’intervento di Carlotta Tringali L’importanza della formazione del pubblico: esempi concreti e necessità, ispirato dalla sua duplice natura di redattrice del Tamburo di Kattrin e di collaboratrice di AMAT – Associazione Marchigiana Attività Teatrali (per la quale si occupa di formazione del pubblico).
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PREMESSA
A maggio sono stata ospite al convegno Un nuovo sistema per la danza? organizzato da FabbricaEuropa a Firenze dove mi hanno chiesto di intervenire sul tema Quale formazione per il pubblico per la danza? Ciò che vorrei fare oggi è ampliare e soffermarmi meglio sulle riflessioni presentate per quella occasione per provare a dare loro più respiro e ragionarvi insieme, sollevando delle domande.
INTENTO
Parto da un punto fermo e imprescindibile: abbiamo diversi tipi di teatro/danza – e non tutti parlano allo stesso modo al pubblico, o, semplicemente, non hanno lo stesso appeal; se si dice “teatro di prosa” si avrà una certa risposta, se si dice “teatro di ricerca”, o “danza d’autore” se ne avrà un’altra (un numero più esiguo di partecipanti, solitamente per quest’ultimo ramo teatrale). Questo, non per mettere in luce che esiste un teatro di serie “A” e un teatro di serie “B”, ma per tentare di capire perché il pubblico si avvicini di più a spettacoli mainstream, ossia a ciò che pensa di conoscere meglio e perché pensa che ciò che conosce lo possa meglio appagare. Ed eccola una delle parole-chiave attraverso cui vorrei procedere: “conoscenza”.
CONOSCENZA
È scientificamente provato che l’essere umano ha una reazione di piacere nei confronti del riconoscimento; c’è un rilascio di endorfine nel corpo nel momento in cui avviene un atto di riconoscimento. Il fatto di riuscire a leggere un codice – un tipo di musica, di arte o di danza – dà la possibilità di creare paragoni, di capire o di apprezzare di più quello che si vede.
Ma, soprattutto, il “riconoscimento” include la “conoscenza”: credo che sia importante far conoscere al pubblico cosa esso può potenzialmente vedere, cosa sta per vedere o cosa ha visto.
Ma, come poter far sì che il pubblico “riconosca” e quindi “conosca”? Le possibilità di accesso alla conoscenza o al semplice incontro con l’arte del teatro sono pochissime. Spesso ci si arriva tardi e per pura casualità. È noto il fatto che non esista un’educazione teatrale a scuola, a parte l’esempio dei Licei Coreutici, e se si chiede a una classe di sedicenni: “Se dico danza, che cosa vi viene in mente?”, il 90% delle risposte verteranno su tutù, scarpette, punte, musica classica e una cosa per femmine. Inoltre, molto spesso, la maggior parte degli spettatori non distingue – sulla carta – le compagnie professionali da quelle amatoriali. C’è una confusione incredibile.
Spesso il primo contatto dei giovani con il teatro avviene diventando spettatori casuali di saggi di danza di familiari e di amici, o con le matinée per le scuole dove l’attenzione non sempre è alta – quando il pubblico è completamente formato da ragazzi delle superiori si sa che l’attenzione è ridotta ai minimi termini, a parte in alcuni rari casi. E allora cosa succede? Che si associa l’esperienza teatro a quello che si è provato sulla propria pelle: nella maggior parte dei casi i saggi di danza mescolano tanti stili (perché il saggio diventa una speciale vetrina dei corsi che si possono trovare in una determinata struttura), diversi livelli di preparazione e si dilungano in un numero indefinito di brevi esecuzioni ripetute per permettere a ogni allievo della scuola il giusto e meritato momento di gloria dopo un anno di prove e fatiche.
E allora spesso succede che dal pubblico potenziale di teatro, la danza sia associata ai saggi, al tentativo di cercare le belle forme, di intrattenere in maniera divertente e spensierata chi la sta guardando. Come spiegare agli spettatori potenziali che il teatro e la danza fatta da professionisti può andare anche in un’altra direzione? Una direzione dove l’intrattenimento non è che un solo aspetto nel mare magnum degli spettacoli possibili, dove si può andare a teatro per sentirsi rivolgere delle domande, per interrogarsi sul presente, per sviscerare e analizzare da un altro punto di vista la realtà che ci circonda.
Quindi credo che la prima vera base da gettare, la prima vera necessità per parlare di formazione del pubblico sia proprio diffondere la conoscenza. Ecco allora che l’arduo compito degli operatori, dei critici, dei teatranti, è quello di portare il potenziale spettatore a conoscere quello che a teatro può accadere. Perché non lo sa, perché non lo conosce.
Ovviamente la domanda più difficile è: come fare? Cosa possono fare gli operatori del settore? Devono trovare dei modi per scardinare degli stereotipi, per fornire gli strumenti utili per diffondere la conoscenza di teatro e danza e delle sue potenzialità e possibilità di espressione.
QUESTIONE DI ABITUDINI: PERMETTERE L’ERRORE
Inoltre, proprio a causa della non-conoscenza, c’è un altro problema che subentra automaticamente: non vi è margine d’errore. Se casualmente uno spettatore potenziale si reca a teatro e rimane deluso (o perché non gli è piaciuto ciò che ha visto, o perché l’ha annoiato o semplicemente non l’ha capito), raramente darà al teatro un’altra occasione di riscatto, difficilmente tornerà con l’entusiasmo o con la curiosità di vedere un nuovo spettacolo. Tutto questo però non accade con le altre arti cugine del teatro, ossia col cinema e con la musica: se si vede un film noioso, o che non soddisfa i propri gusti, al cinema si torna; se sostituiamo al termine film quello di concerto musicale, la situazione non cambia. Al cinema e a un concerto si torna all’infinito, anche se non si è rimasti appagati dalle esperienze precedenti. Perché non succede la stessa cosa per il teatro? Quante volte vi è capitato di sentire da non appassionati di teatro frasi come: “Io in quella scatola non ci torno più?” (magari non proprio in questi termini, ma rende bene l’idea). Difficilmente al teatro si dà una seconda chance e introduco qui un altro concetto che è quello di abitudine. Non ne parlo in termini negativi, ma semplicemente in termini educativi: non si va a teatro perché non lo si conosce e quindi non entra nelle proprie abitudini. Il teatro non rappresenta, oggi, per gli spettatori potenziali, una possibilità quando si pensa a come poter passare un sabato sera tra amici. Nel mondo di oggi, in cui ci sono tantissime distrazioni, il teatro non è contemplato, non sembra essere una valida alternativa al cinema, ai concerti, alla piazza.
E come si può diventare appassionati? Come si può far accettare il margine d’errore del teatro? Sicuramente, avvicinarsi a questa arte è un primo tentativo per scoprire una passione che prima non si conosceva. Andare a teatro diventa un atto di conoscenza. E solo in questo modo può diventare un’abitudine, una cosa normale e non un’eccezione: allenare e affinare l’esercizio critico nell’educazione dello sguardo crea quel processo affettivo di riconoscibilità che trasforma il pubblico casuale in pubblico specifico, critico, attento; pubblico che concede il margine d’errore e che, nonostante tutto, torna curioso a teatro, proprio come al cinema e come a un concerto.
ESEMPI CONCRETI
Avevo pensato di presentarvi esempi concreti per la formazione del pubblico e invece mi sono molto soffermata sulle necessità. Perché penso che conoscendo le necessità, poi si centri più facilmente l’obiettivo.
Quali attività è possibile svolgere per far conoscere il teatro? Cosa possono fare gli operatori e i critici? Mi sono segnata alcune esempi di attività utili e che vengono già praticate per diffondere la conoscenza:
– promuovere laboratori teatrali per non-professionisti (per far conoscere cosa può accadere a teatro, come funziona il lavoro, cos’è un vero spettacolo);
– promuovere esperienze per diffondere un’altra concezione di danza sin dalla tenera età come fa il progetto Vita Nova voluto da Virgilio Sieni per la Biennale Danza (portare i bambini a contatto con modalità diverse di espressione del corpo);
– offrire lezioni propedeutiche di teatro (teoriche) ai ragazzi delle superiori prima di mostrare loro uno spettacolo (come le esperienze di Stratagemmi a Milano, AMAT con Scuola di Platea e Altre Velocità con ERT);
– fare incontrare la danza e il teatro ai bambini fin dalla tenera età (con progetti specifici come CorpoGiochi Off di Monica Francia, o con degli spettacoli di teatro sempre con professionisti);
– rendere partecipe una comunità all’esperienza teatrale (e qui penso a Kilowatt);
– inserire nel programma didattico delle università che si occupano di teatro la visione di spettacoli – purtroppo non sempre chi studia la materia si reca con assiduità a teatro – (come fa Laura Gemini all’Università degli Studi “Carlo Bo” di Urbino);
– creare contesti adatti e consoni per presentare alcuni lavori di teatro o danza contemporanei di qualità ma che risultano di difficile accesso a un pubblico non avvezzo al contemporaneo (e qui penso agli incontri di approfondimento, di dialogo con le compagnie). È vero che la qualità di un lavoro parla già da sé, ma, se accompagnato e protetto con delle situazioni collaterali che possano fornire strumenti utili per conoscere meglio le motivazioni che muovono un lavoro, si può aiutare il pubblico a crescere, a comprendere meglio quello che si trova davanti.
CONCLUSIONI
Mi sembra che, a partire da tutti i discorsi fatti, emerga l’idea che conoscenza, abitudine e contesto aiutino a stimolare l’andare a teatro: a vedere quello che si conosce e in cui ci si riconosce ma anche avere voglia di rimanere spiazzati e scoprire qualcosa che prima non si pensava fosse possibile. Più si vede, più si conosce, più si diventa esperti e anche esigenti e questo spero aumenti la qualità degli spettacoli. Per arrivare a questa fame di teatro il percorso è lungo e faticoso (e creativo), ma soprattutto è fatto di tentativi i cui risultati si vedono a lungo termine. Ma questi tentativi si possono confrontare e mettere addirittura in rete, poiché l’obiettivo è lo stesso per tutti, ossia diffondere il teatro e il gesto della danza, comunicarlo a più persone possibili, facendo capire loro quanto sia bello che queste forme d’arte possano rientrare tra i normali appuntamenti della vita.
Carlotta Tringali