Recensione a Macbeth su Macbeth su Macbeth. Uno studio per la mano sinistra – di Chiara Guidi (Socìetas Raffaello Sanzio)
Forse, lo spettacolo di Chiara Guidi dal Macbeth che ha debuttato al Festival Vie di Modena, si chiama “studio” (nel sottotitolo) perché il senso che trasmette il lavoro è quello di una inesausta ricerca, che si svolge prima ma anche durante la messinscena stessa.
Fin dall’inizio. Quando, ancora con le luci accese in una sala pervasa di nebbia, tre “spettatrici” in nero (Chiara Guidi, Anna Lidia Molina, Agnese Scotti) si alzano e, guardandosi intorno, bisbigliano «Macbeth, Macbeth, Macbeth». «Non bramo altro che trovarlo», rivela una di loro. Quando, poco dopo, Chiara Guidi sparpaglia sul palco pagine e pagine di libri, cerca di riacciuffarle, le perde di nuovo, non si lasciano trattenere in un abbraccio unico. Più in genere, per l’assenza stessa, in concreto, del re shakespeariano: fantasma sempre invocato in scena, continuamente nascosto e celato (dimensione su cui insistono, fra l’altro, numerose scelte visive, a partire dai grandi quadrati di tela nera che man mano vanno a coprire oggetti, persone, azioni).
Macbeth su Macbeth su Macbeth. Il titolo rimanda piuttosto esplicitamente alla triplice invocazione delle streghe all’inizio della tragedia shakespeariana, che riverbera nella triplice attorialità in scena e nei modi in cui viene gestita, tanto a livello fisico-gestuale che sonoro-vocale.
Ci sono brandelli di frasi, parole morsicate, fiati, sussurri, bisbigli, versi d’ogni genere, dai più lievi e flautati a quelli più profondi e viscerali, glossolalie, tensioni inimmaginabili e affondi lunghissimi; una parola che è la carne che la dice, frutto estremo degli anni di ricerca nel campo dell’oralità di Chiara Guidi. Ma i pezzi di Macbeth in scena, attraverso cui è possibile seguire il precipitare della tragedia, non sembrano resti o residui del testo shakespeariano che si presenterebbe in quel caso per frammenti; mantenendo un legame esplicito con il testo da cui sono estratti (rivendicato, ad esempio, dalle progressive integrazioni agli stessi passaggi di testo), paiono piuttosto emergere da esso, come punte scoscese di un iceberg drammaturgico che si estende molto più in profondità, e, dopo essere state trattate dalla partitura vocale, si ergono a guida del senso e del ritmo della tragedia. Le tre voci a volte si sovrappongono, creando eco che si convertono in chimere di senso o amplificandosi in un tono unitario; altre, si passano parola, sia quando ciascuna aggiunge un pezzo, che quando ognuna va per la sua strada; in altri momenti, si giustappongono autarchiche, in altri ancora sono quasi la stessa cosa, la stessa voce, la stessa cavità da cui si origina il dramma. Qualcosa di simile accade con i corpi e i gesti cui danno vita: sul palco, c’è una presenza una e trina, che varia da una fisicità bestialmente deformata al polo della delicatezza e della precisione, attraversando diverse opzioni di interazione (con un’attrice che compie una propria azione, senza in apparenza interagire con le altre, oppure quando si influenzano a vicenda, o ancora se intervengono l’una sull’altra o, infine, nei passaggi in cui si muovono come un unico corpo).
Dal densissimo nero iniziale, si snoda uno spettacolo che segue le vicende del Macbeth, scegliendo come guida il profondo dualismo di cui è intriso il testo (e, sempre coerentemente con esso, facendosene anche ampie beffe con rovesciamenti in agguato dietro ogni angolo). «Il bello è brutto, il brutto è bello», cantavano le streghe di Shakespeare. Così, questo allestimento plasmato dal buio è sferzato da tagli di luce rari ma potenti, siano quelli soffici di una piccola candela o quelli più nitidi di un faro, il riflesso del metallo o le gradazioni terragne di un albero. Intanto, dal pieno del vuoto iniziale, ogni azione comporta un’integrazione visiva e di senso: gradualmente, il palco accoglie alcuni oggetti, mentre le parole si dispiegano mostrando quello che sta accadendo e le azioni le seguono aderendo allo sviluppo drammatico. Sembra quasi che il mistero degli inizi venga piano piano illuminato, almeno in alcuni punti, e possa così in parte essere svelato con maggiore nitidezza al pubblico.
È un teatro ferocemente minimalista quello creato da Chiara Guidi per il suo Macbeth, insieme a Francesca Grilli e alle musiche di Francesco Guerri e Giuseppe Ielasi (il primo anche violoncellista in scena). Il palco è un pieno di nero da cui si lasciano mostrare, di tanto in tanto, alcuni oggetti: un anello di metallo appeso a mezz’aria, una sedia-trono dorata, un pugnale sospeso, una trave, una porta, una mano, un’ombra. Come le parole del Macbeth, sembrano aver lottato a lungo fra loro per emergere dal posto da cui provengono; estratti dal loro contesto originario, sono oggetti sospesi nel buio della scena, quasi fantasmi di un tutto che non riesce o non può concretizzarsi integralmente.
In qualche modo, sono così anche le azioni: l’omicidio è addensato in un unico gesto di profilo (quello di una pugnalata), ripetuto fino allo sfinimento; il senso di colpa della Lady (e le sue famose mani indelebilmente segnate) è incarnato da una mano dorata dietro a una porta, che sporca di polvere brillante tutto quello che tocca; il bosco di Birnam è la radice secca e antica di un albero, sospesa in alto; la mano sinistra del titolo, tradizionalmente quella “sbagliata”, è continuamente occultata, legata, impedita alla vista e al movimento.
Tutti questi elementi – in diversi sensi e a differenti livelli estratti dal proprio contesto di appartenenza e riproposti su una scena scarna e tesa –, nella loro autarchica solitarietà, concretizzano sul palco una delle doti distintive del Macbeth: il fatto di essere soprattutto una tragedia dell’immaginazione, dove profezie, desideri, previsioni e sogni hanno la meglio sul reale, lo determinano e lo producono. Così, l’immaginazione dello spettatore è condotta a muoversi autonomamente fra i pochi e precisi elementi visivi e testuali, a cercare il “suo” Macbeth lì in mezzo, da sola.
La deflagrazione drammaturgica di ogni scena si irradia comunque a partire da nuclei di senso ben precisi e lucidi, esposti sia a livello vocale che con le immagini. E, fra questi, ci sono dei semi che ritornano, che sembrano coordinare la messinscena e dischiuderne alcuni livelli di senso: tutte le volte che ripetono “re” o “malata” (per segnare il momento dell’omicidio o il sonnambulismo della Lady), tutte quelle che si appoggiano l’una alla spalla dell’altra, di fronte, tutte le altre in cui in scena prende vita un nodo (di corpi, di stoffe, di arti) e quelle, infine, in cui qualcosa è nascosto e svelato, per poi essere di nuovo inghiottito dal buio. Ci sono dei nodi (in concreto, ma anche di senso, di ritmo), tanti nodi, in cui si avviluppano insieme storie e linguaggi, ma a partire da cui lo spettatore può comunque immaginare ciò che accade prima, dopo, durante (e da lì, creare riferimenti e collegamenti, la scena successiva, il suo spettacolo).
La vicenda precipita progressivamente verso la sua conclusione, nel frattempo ha intrappolato lo sguardo e l’emozione di chi ha cominciato a seguirla. Il finale (che non si può rivelare) è qualcosa da togliere il fiato, ma è anche un brivido di speranza che sembra essere sfuggito da qualche crepa nel nero totale di cui è imbevuta la tragedia: un’aurora di luce sconvolge la scena prima che si chiuda il sipario.
In questo spettacolo, oltre il bruciante minimalismo, c’è anche tanta potente magia del teatro, una sapienza materica e materiale che trasuda da ogni scelta, sia a livello linguistico (corporeo, vocale, visivo, musicale…) che compositivo, che infine in un artigianato dell’attore e della scena scandito da ritmi che non lasciano un attimo di scampo.
Un allestimento nerissimo per la tragedia maledetta per eccellenza, dove potere e desiderio, umanità e magia continuano la loro lotta perpetua da secoli; un’opera di rara potenza in cui immagini, parola e musica si intrecciano a comporre situazioni di raro fascino, invitando lo spettatore a un coinvolgimento totale, fatto in pari misura di ascolto, visione, emozione; uno spettacolo, infine, che – probabilmente proprio per questa richiesta di presenza integrale al pubblico – fa paura e la fa davvero, in concreto, nel corpo. E, così, permette di ricordare un po’ perché e per come si vada ancora a teatro.
Visto al Teatro Ermanno Fabbri, Vignola (Vie Scena Contemporanea Festival)
Roberta Ferraresi