Quale posto può occupare lo sguardo critico, in un mondo in cui il giudizio è spesso evitato, di frequente oggetto di imbarazzo, quasi sempre discusso e discutibile, dalla quotidianità di una politica ad personam che ne tenta sempre declinazioni possibili alle polemiche sui vari televoti e sulle decisioni arbitrali nelle partite di calcio, fino al contesto strettamente giornalistico-teatrale, in cui lo spazio dedicato alla critica si restringe sempre più, fra recensioni minimal ed emblemi grafici, destinati a condensare – come ricordava qualcuno – nei loro pochi segni tutte le linee che compongono l’incontro fra scena e sguardo.
Quando il tempo (lo spazio, l’attenzione, il mondo) stringe, occorre tentare di rigenerarlo, di creare nuovi itinerari e sviluppi, di insinuarsi nelle minuscole crepe dell’informazione. Di qui (o, quantomeno, in prossimità “a qui”) nuovi ruoli per il critico teatrale, profili e attività inediti: si è assistito negli ultimi anni a un progressivo e serrato processo di declinazione della figura del critico, che, di fatto, non esiste più (o solo raramente) come sostantivo (e ruolo) a sé, ma si anima invece nelle sue tante possibili applicazioni. Ormai soprattutto prefisso di miriadi di ruoli composti, la purezza dello sguardo è esplosa in figure come il critico-direttore artistico, il critico-operatore, il critico-artista, il critico-promoter e via così, in un vortice di ibridazioni contigue e successive che ha spostato e continua a traslare i confini del lavoro critico. Ma in un mondo come quello attuale, in cui i telefoni fanno fotografie, la politica è (con)fusa con lo show, la co-autorialità dello spettatore è realtà, non si tratta certo di mantenere o invocare una condizione di purezza: l’ibrido è nei nostri tempi, si scioglie nei nostri rapporti, delinea con movenze tenere i nostri spazi. L’opposizione al mutante, nel nome di una chiarezza di ruolo ormai perduta (e non solo in teatro), non ha speranze, non si dimostra utile, non riesce a tracciare nuovi contesti. La possibilità declinativa ormai insita nella quotidianità, l’essere-in-potenza, inafferrabile, sempre a un passo dal poter diventare altro, ha poco a che fare con confusioni di ruolo o di profilo: è identità. Per questo è importante farsi carico del contesto in cui si opera, per tentare di immaginare traiettorie critiche capaci di fare i conti con la realtà in cui nascono, sono diffuse e sono lette. Il che non significa necessariamente cedere alla deriva dell’ibrido, trasformando il proprio sé nelle sue tante declinazioni possibili.
Inauguriamo allora la nostra piccola frastagliata sfilata di opinioni e desideri intorno alla figura del critico con qualche notazione decisamente personale – pensieri di chi frequenta scena e platea da pochissimo tempo, ma ha deciso comunque di costruire continuità fra queste esperienze attraverso le proprie parole.
Viviamo in una realtà dell’informazione singolarmente espansa: una rete quanto mai trasformabile ed ampliabile ad hoc, che muta al cambiare delle nostre necessità del momento; ogni panorama, oggi più che mai, dipende dalla posizione di chi guarda, sciogliendosi in altri profili secondo gli spostamenti dell’osservatore. All’interno di tali contesti, molteplici e mutanti, come accennavamo prima, lo spazio per la critica e per il giudizio è sempre più ridotto. Quali possibilità, allora, per il pensiero critico? Quali spazi, quali tempi?
Concludiamo indicando una delle tante possibilità percorribili, per ricondurre lo sguardo, oggi più che mai, alla sua indispensabilità. Si può tornare a cercare negli elementi essenziali che costruiscono il fare critico, all’interno di quelle relazioni fra scena e platea in cui questa figura si ritaglia: dalla parte dell’artista (del processo creativo, della ricerca, degli slanci e dei compromessi), dalla parte dello spettatore (dell’immaginazione, dell’interpretazione, dello sguardo). In ogni caso si tratta, in un mondo che subito dimentica e in cui tutto può essere relativizzato secondo una individualità precisa, di ritessere le relazioni fra teatro e mondo; di interrogarle, da un lato all’altro della scena; di andarle a cercare, di riportarle in luce e in superficie, agli occhi di tutti. Il contesto (artistico, ma anche culturale, sociale, politico) in cui germina un oggetto d’arte, in cui è esperito, guardato, ricordato e dimenticato, è parte essenziale di esso: come pensare i lavori della Postavanguardia senza esplorare gli Anni di Piombo? Come parlare della Terza Ondata senza citare la diffusione della tv privata o della club culture o dell’arte visiva degli anni Novanta o, ancora, della storia del Festival di Santarcangelo? E invece si fa, e spesso la critica si plasma sui limiti dell’incontro personale, quasi biografico, fra sguardo e spettacolo. E forse anche qui si possono ricercare le ragioni della sua perdita di necessità. Certo non è possibile includere tutto, intrecciare reti di senso e di rimandi che sappiano accogliere ogni itinerario che ha accompagnato una creazione, dal processo ideativo alla sua materializzazione e diffusione. Ma forse vale la pena tentare di uscire dal progressivo scollamento in atto nel contesto artistico, quella divaricazione fra scena e mondo (che riguarda artisti e pubblico, e, allo stesso tempo, teatro e realtà) che, nel suo svilupparsi, ha stritolato le creature che vi lavoravano in mezzo, come il critico. E allora forse si può provare a ricollocare lo sguardo all’interno del mondo in cui lo spettacolo nasce, si presenta e viene fruito, che è poi il mondo in cui viviamo tutti, per tentare di ritrovare una necessità dello sguardo, del giudizio e, perché no, anche del teatro.
Roberta Ferraresi