Recensione a La morsa – regia di Arturo Cirillo
Parlare di triangoli amorosi oggi, soprattutto con tanto di tragedia finale di una donna che per il peso della propria colpa si uccide, sembrerebbe quasi démodé. Lui, lei, l’altro è un tema che ha abitato moltissimo la letteratura e ne ha trovato spesso sviluppo all’interno delle mura di una casa borghese. Pirandello ha affrontato più volte nei suoi lavori il tradimento coniugale e lo ha fatto anche nell’epilogo in un atto poco rappresentato dal titolo La morsa che Arturo Cirillo ha messo in scena e interpretato insieme a Sandro Lombardi e Marta Richeldi. Se gli attori calzano perfettamente i loro ruoli, se la regia è precisa e taglientee il testo dell’autore siciliano è una crudele spirale che toglie il fiato, l’effetto del vecchio vestito ormai passato di moda scompare, lasciando al suo posto un senso di vuoto e amarezza.
Nel suggestivo chiostro del Museo Nazionale del Bargello di Firenze, le parole di Pirandello sembrano lame inserite lentamente dentro un corpo che a sua volta, piano piano, cede, si arrende e muore. Cirillo costruisce una perfetta bomba ad orologeria con un ritmo incalzante e allo stesso tempo dotato di una regolarità chirurgica, portando tutti e tre i personaggi in scena in un conto alla rovescia interiore che li conduce a un’implosione. Nella loro vita stagnante − rappresentata esteriormente dalla scenografia di Dario Gessati, fatta di teche contenenti elementi di arredamento immersi nell’acqua − lo start che innesca questa vicenda della crudeltà è dato da una verbosità sibillina che corre sul binario del sospetto. Di fatti, in questo spettacolo non se ne vedono: è tutto affidato alla parola, le azioni sono sottratte alla vista effettiva; possono solo abitare la fantasia privata dello spettatore. Del mondo esterno non vi è così alcuna traccia: ne rimangono echi lontani, rumori angoscianti e sibili di vento. Il fuori diventa lo specchio dell’interiorità dei protagonisti e riflette la loro emotività in bilico; sempre da fuori provengono le didascalie scritte da Pirandello e pronunciate dagli attori: elemento straniante, che al tempo stesso allontana e avvicina al personaggio, dilata il vuoto esistenziale derivante da una vicenda chefrattura le identità fino allora integre.
Il marito tradito, interpretato da un impeccabile Sandro Lombardi, è un sadico e gelido uomo dai movimenti minimi ed eleganti; è lui ad innescare un meccanismo che scorre nel fiume carsico dell’inconscio: le sue parole-lame colpiscono la moglie indirettamente come se si conficcassero in parti del corpo non vitali; sono proprio quei colpi a condurre al crollo la donna. Vittima delicata e silenziosa è Marta Richeldi: la morsa soffocante del marito sembra stringere lo stesso pubblico; nonostante sia lui ad essere stato tradito, la sua meschinità è tale che la colpa d’adulterio viene meno e rimane la disperazione di una donna a cui in un attimo crolla l’esistenza, la vita borghese e la gioia di veder crescere dei figli che le verrebbero portati via. Se il marito l’accusa con toni sommessi, l’amante, impersonato dallo stesso regista, riversa la sua ansia non solo verbale ma anche fisica addosso all’amata. La diversità espressiva di Cirillo e Lombardi si completa regalando una magnifica prova attoriale.
Dal terrore al senso di colpa che la assale, anche la protagonista femminile in scena non è da meno: lascia trapelare dal viso tutta l’angoscia che la abita e che la spinge a vedere solo nel suicidio una risoluzione all’intera vicenda. Ecco che l‘unica azione che si potrebbe vedere è sottratta alla vista del pubblico: il rumore del colpo di pistola proviene da fuori; in scena rimane posto solo per il dolore mai urlato ma elegantemente espresso dai sofferenti corpi degli attori.
Visto al Museo Nazionale del Bargello, Firenze
Carlotta Tringali