Recensione a Nascita di una nazione – Accademia degli Artefatti
Quattro personaggi arrivano in una città devastata dalla guerra provocata dalla loro stessa fazione. Cercato il contatto con gli abitanti, si presentano, narrando la propria storia e il modo in cui l’arte ha dato senso alle loro vite e guarito i loro traumi. Giunti di fronte alla provata cittadinanza tentano, a loro volta, di portare pace e serenità attraverso l’insegnamento dell’arte. Questa è la breve trama di Nascita di una nazione nella versione scritta da Mark Ravenhill per il ciclo Spara, trova il tesoro e scappa, composto in occasione dell’Edimburgh International Festival del 2007.
Gli attori, con disinvoltura, entrano in scena trainando ognuno il proprio trolley da viaggio. Lo spazio è estremamente semplice, solo un piano in legno a delimitare lo spazio performativo. La condizione fondamentale è la frontalità con il pubblico, che ricorda l’atmosfera delle assemblee cittadine e al contempo delle esibizioni teatrali in genere – ed in effetti riassume efficacemente l’intento di entrambi i livelli comunicativi dei personaggi: parlare ai cittadini e dimostrare la propria arte.
A caratterizzare fortemente l’Accademia degli Artefatti è la naturalezza nella recitazione, non priva di tentennamenti e balbettamenti che in alcuni casi paiono però eccessivi (soprattutto nella parte iniziale dello spettacolo che ne viene rallentata ed appesantita). Molto interessante la scelta di entrare in scena come semplici uomini che osservano l’ambiente e solo successivamente assumono il ruolo di artisti posizionandosi sotto le luci del ‘palco’.
La relazione con il pubblico è fatta di vicinanza, di relazione tanto concreta da chiedere esplicitamente risposte, gli attori in un occasione distribuiscono carta e penna, in un crescente approccio al coinvolgimento. Addirittura, quando una donna tra gli spettatori acconsente ad alzarsi, scatta spontaneo l’applauso del pubblico, che ingenuamente ignora, almeno per qualche attimo, che la coraggiosa signora sia in realtà attrice.
Estremamente apprezzabile la doppia valenza data al testo, che mantiene il filo della narrazione originale, ma sdoppia contemporaneamente il significato del linguaggio leggendone ogni parola su un piano semplicemente fattuale – spesso comico nella sua ambivalenza – condizionando e determinando le dinamiche di relazione tra i personaggi e con gli spettatori.
Grande forza del testo di Ravenhill, che nel finale assume un ribaltamento amaro: la donna che gli artisti vorrebbero aiutare ha subito traumi e perdite tali che è evidentemente e tragicamente illusiorio credere di poterla aiutare, mentre la povera donna rotola al suolo, continuando a sputare sangue, i loro occhi di artisti non vedono la realtà, ciechi di fronte una sofferenza che in quel momento dell’arte non se ne fa proprio nulla. Scena finale che quindi riesce a far evaporare in un attimo ogni teoria esposta e calorosamente approvata dagli ‘artisti’.
Bravi i quattro attori, tra i quali colpiscono in particolare le interpretazioni di Gabriele Benedetti e Pieraldo Girotto. Finale che lascia coinvolti e desiderosi che lo spettacolo possa continuare ancora, anche perché risate sentite e riscontro emotivo riescono ad emergere solo a performance ampiamente inoltrata.
Agnese Bellato