Recensione a Tre studi per una crocefissione – di Danio Manfredini
Venerdì Santo è trascorso da non molto. Rappresenta il giorno della crocefissione per antonomasia, dell’immolarsi divino alla salvezza universale. Ma capita di morire, anche solo interiormente, e non riuscire a salvare nemmeno se stessi. Peggio ancora, succede e nessuno se ne accorge. Oppure, accade che la morte consegua alla tessitura immorale di un andirivieni spacciato per verità. Dopo un’esistenza di stenti e sofferenze. E non si risorge. Una sofferenza, trasposta in scena, da guardare con il medesimo sussulto emotivo con il quale si osserva un corpo in croce. Su questa croce ci stanno uomini, però.
Tre studi per una crocifissione che Danio Manfredini ha messo in scena venerdì scorso nel quarto appuntamento della rassegna “More Fridays” al Teatro Morelli di Cosenza, è un trittico sul dolore. Dolore piombato accidentalmente, senza nessuna ragione a movente, a condannare senza remissione.
Del resto, un trittico lo è l’opera di Francis Bacon ispiratrice del soggetto, una triade nella stessa partitura. Dove la religiosità è sottoveste leggera, in accenni tematici e sunto riflessivo, per un’indagine più profonda sulle marginalità cause di un normativismo imposto, ammassificato. Un dovere invisibile che premia i “normali” e fa pulizia etnica dei non conformi a norma. Vittime del sistema: urbano, razziale, religioso.
Rimpolpata notevolmente la platea rispetto alle ultime uscite non bagnate dalla folla. La fama dell’artista cremonese lo ha preceduto in questa discesa al Sud. Manfredini è una colonna vivente del teatro contemporaneo, iniziato a bottega da Cesar Brie, vincitore di due premi Ubu e formatosi nei teatri autogestiti, quelli dei centri sociali. Uno che dell’accademia non sa che farsene, peggio del nozionismo. E in scena non lascia un mezzo minuto il suo pubblico senza catarsi. Perfino nei cambi di scena fra un quadro e l’altro, dove l’attore si sveste per indossare abiti nuovi, la sospensione in attesa è suspence, poesia, visuale di un uomo nelle nudità di un corpo fatto per il teatro.
Quadri di crocifissioni invisibili, quotidiane, umane. Che sanno di Fassbinder e della violenza del maledetto Koltès. Con sottofondo di Bach. Dipinti da una semantica di altissimo spessore drammaturgico, nell’asciuttezza quanto nell’efficacia, e da una grammatica interpretativa simile all’incarnato compositivo d’un pentagramma perfetto. Puntellato da estetismi scenografici poverissimi ma balzanti come punti luce di un firmamento ammantato. Ammantato della penombra dei resoconti tristi, divisi dalla platea da un paio di corde incrociate, come un confine, segnale a non oltrepassare.
Sul palco, per un’ora e mezza, le storie di un malato psichiatrico, un transessuale sentimentale e un extracomunitario. Storie anonime se non fosse per l’anima gravida dell’artista che, spinto da chissà quale demone sottocarne, materializza parola, gesto, emozione.
Ovazione a fine scena accese le luci di sala.
Visto al Teatro Morelli, Cosenza
Emilio Nigro