I due giorni di dialogo della non-scuola il 21 e 22 aprile, organizzati dal Teatro delle Albe per i 20 anni di vita di quell’esperienza, sono stati per me uno stimolo importante di riflessione. Il ventaglio grandissimo degli argomenti, dal senso del fare teatro alle problematiche tecniche connesse al lavoro delle guide della non-scuola, hanno lasciato spazio anche al racconto dell’esperienza di Seneghe. Qui un’attività di non-scuola condotta da Roberto Magnani vive da quattro anni in simbiosi con un festival letterario, il Cabudanne de sos poetas/Settembre dei poeti. Ho avuto il piacere di testimoniare a Ravenna l’importanza che essa ha avuto per la comunità del mio paese, meno di 1900 abitanti di un borgo pastorale posto vicino alla costa centro-occidentale della Sardegna. Chiarisco che quando parlo di comunità uso questo termine col senso che ha avuto nella vita culturale e politica italiana grazie, per esempio, ad Adriano Olivetti. Uno dei luoghi in cui la sua attività intellettuale e politica ebbe importanti ripercussioni fu la Sardegna. Niente a che fare con comunità mitiche, inventate, difensive. La polis sono anche gli uomini riuniti davanti alla scena, il “cerchio condiviso in cui gli uomini, stranieri l’uno all’altro, si riconoscono”, per citare le parole di Marco Martinelli. “Morta la politica, l’educazione è diventata il campo in cui ancora la si può fare”. Una politica orientata a una crescita che è anche e anzitutto liberazione da una rete di condizionamenti culturali antichi e recenti. Nello specifico seneghese è successo che un’onda positiva arrivata a un gruppo di ragazzi attraverso il teatro si è propagata per contagio ai genitori, ai fratellini, agli anziani che vivono soli nelle case vicine. Il teatro svolge il suo compito antico: scuote, illumina, commuove, fa riflettere. Soprattutto le tantissime persone che non hanno più occasione di trovarsi tutti insieme a vedere, ascoltare, partecipare.
Nel mondo tradizionale seneghese, in buona parte perso nel passato, ma ancora pienamente vivo negli anni Sessanta, la poesia si rappresentava in piazza di fronte alla comunità riunita. Nel giorno della festa tutti i componenti della famiglia uscivano di casa con in spalla sedie e scanni di dimensioni adeguate all’età. Andavano a formare man mano una platea ordinata davanti a un palco costruito con pali e tavole, o costituito semplicemente dal carrello di un trattore. I poeti erano due, ben noti al pubblico. Veniva loro assegnato un tema e su questo si sfidavano a mostrare più intelligenza, arguzia, profondità di pensiero, prontezza nella risposta, improvvisando ottavas serradas, ottave chiuse dalla rima baciata. Per qualche anno c’è stata in paese anche una pratica molto ingenua di teatro da filodrammatici. Grande coinvolgimento e grande divertimento, ma tutto si chiudeva con l’ultimo sipario. Faceva parte della maturazione umana, intellettuale e politica di nuovi gruppi “dirigenti” che mettevano alla prova e verificavano i loro poteri. Rappresentavano davanti ai compaesani la conquista di uno status sociale diverso e del linguaggio adeguato a quella nuova condizione. Oggi le cose sono diverse. Non è più questione di assalto al cielo, ma di ri-costituzione di un tessuto umano e civile. La canzone degli FP e degli IM, portata a Seneghe l’autunno scorso dal Teatro delle Albe, è stato lo spettacolo teatrale a cui molto seneghesi assistevano per la prima volta. Il teatro porta energia, vita, gioia. A Seneghe ne abbiamo bisogna perché la nostra è una realtà in grande difficoltà da tanti punti di vista. Ma credo che da un teatro come quello visto all’opera in Eresia della felicità a Sant’Arcangelo di Romagna, dove erano presenti anche dieci ragazzi di Seneghe, possano trarre vantaggio anche altri. Lo si è visto a Venezia.
Mario Cubeddu