Tre giovani autori. Tre testi inediti. Tre titoli laconici: Sterili, Radici, Peli. Questi gli ingredienti di Nuove drammaturgie in scena, capitolo del progetto La Provincia in scena, realizzato dall’Atcl, Associazione teatrale fra i comuni del Lazio, e promosso dall’Assessorato alle Politiche Culturali della Provincia di Roma in collaborazione con Fondazione Romaeuropa e Palladium Università Roma Tre. In apertura, il 26 e il 27 febbraio, Sterili di Maria Teresa Berardelli, Premio Riccione Tondelli nel 2009. Segue Radici di Niccolò Matcovich, in scena il 28 febbraio e il 1 marzo, e chiude Peli di Carlotta Corradi, il 2 e il 3 marzo. La stazione di una metropolitana, una casa di montagna, un interno borghese gli habitat tratteggiati. L’incomunicabilità, i rapporti sepolti, i sensi stravolti i temi sviscerati, per scritture che non regalano verità ma sconvolgono ogni certezza, per una scena che vive di presenze e di assenze, per un teatro del non detto, come racconta Rodolfo di Giammarco, giornalista e critico teatrale di Repubblica, curatore della rassegna.
Rodolfo di Giammarco: Sarah Kane, che ho incontrato due volte nel 1997, mi ha confessato che dietro alla crudeltà dei suoi testi c’è l’amore. E lo ha trattato apertamente, ma dietro le formule della violenza, dell’accanimento, del negarsi per essere estremi, nel rifiuto della normalità. Le tre drammaturgie della rassegna esprimono il senso nascosto, negato e combattuto dell’amore, che oggi non appartiene più alla nostra cultura della comunicazione, perché, se c’è di mezzo la dimensione dell’amore, si pensa a qualcosa di retorico, convenzionale e sfinente. Mi interessa, inoltre, che ci sia un sottotesto, per cui si parla di qualcosa ma si intende altro, si prefigura l’ansia di non dire altro. Sono meccanismi per niente intellettuali, che ci riguardano perché noi stessi ci censuriamo, abbiamo una vergogna del lessico umano che può legarci, emozionarci e farci più belli. La ricerca della bellezza non è una ricerca del manifesto con la frase fatta, è la ricerca dell’istintività, del massimo abbandono di noi stessi.
L’essenzialità del titolo, le parole taciute, i sentimenti nascosti accomunano i tre testi. Cosa, invece, li distingue e quali le differenze di linguaggio?
R.d.G: I tre autori, con età che vanno dai 23 ai 32 anni, sono stati allievi del mio corso di drammaturgia, che è arrivato al sesto anno. L’Officina Teatrale/Cantiere di Scrittura e Collaudo ha dato loro una spinta per essere più coscienti. Maria Teresa Berardelli, attrice diplomata alla Silvio d’Amico che oggi vuole solo essere autrice, scrive come Jon Fosse, con quell’apparente rilassatezza, quell’apparente calma, silenzi che sono al posto delle battute, brevissimi cenni verbali, mai lunghe frasi, per un’essenzialità molto drammatica. Niccolò Matcovich, che aveva una ventina d’anni quando è venuto a seguire i corsi, scriveva corti, atti unici, e mi dava l’idea di cercare delle radicalità tematiche e linguistiche. Radici è un attonito dialogo, che sembra a basso tono, senza nessun senso partecipativo, tra due persone di alta montagna. Non si dà nessuna escrescenza di termini, è sottrazione totale e identitaria, perché non si capisce chi siano l’uomo e la donna che parlano tra loro. Carlotta Corradi, già regista e produttrice e ora fortemente più autrice, ha sempre studiato il fragile e non convenzionale rapporto tra i sessi, e con Peli affronta due elementi femminili con un sommerso di relazioni fallimentari e un’intesa mai esplicitata. In uno stare insieme qualsiasi, che sembra leggermente borghese, lentamente escono fuori i peli. Non è una soluzione che ha a che vedere con travestitismi, con occasioni amene di passare da un gender a un altro gender, sono due donne che tirano fuori l’uomo che c’è in loro.
Tre giovani drammaturghi e tre registi noti alla scena contemporanea. Come si lega la scelta della parola alla scelta dello sguardo?
R.d.G.: Mi piaceva l’idea di registi che si adattassero al non dire dei testi. Il sottosuolo di una stazione di metropolitana, quell’universo di Sterili che non si dà un marchio, mi è sembrato potesse assomigliare a certi scenari fassbinderiani di Fabrizio Arcuri, che sa dare una temperatura gelida alla non-comunicazione tra uomini e donne. Le parole nel vuoto, con un vuoto identitario di Radici mi è sembrato appartenessero al lavoro di Massimiliano Civica, che fa un teatro senza nulla in scena e con parole avare, che svuota qualsiasi tipo di classico, o drammaturgie originali, come ha fatto di recente con il testo di Armando Pirozzi, Soprattutto l’Anguria. Quel dialogo a due di Peli, che può apparire mondano e fa uno spaccato dell’animo desiderante delle due protagoniste, mi è sembrato potesse avere compatibilità con il lavoro che fa Veronica Cruciani, che mette sempre una macchia nera su apparenti rapporti piccolo borghesi e pseudo-umani.
Nuove drammaturgie in scena è l’ultima delle rassegne curate: vent’anni di Garofano verde, undici di Trend – Nuove frontiere della scena britannica. Come sono nate queste manifestazioni?
R.d.G.: Per quanto riguarda Garofano verde m’interessavano i sentimenti, che in campo omosessuale sono più espliciti, perché c’è meno silenzio e meno “chiusezza”. Ho fatto in modo che una nicchia che poteva circoscrivere, vent’anni fa, uno scambio culturale omosessuale, si aprisse a una comprensione, a un interesse e a un seguito di pubblici eterosessuali. Non un teatro a luci rosse, né un teatro di orgoglio omosessuale, ma una profondità di linguaggi di natura, riflessione e concezione omosessuale. A giugno compie il ventesimo anno, vorrei che ci fosse una festa con autori, attori, compagnie e so, fin d’ora, che vorrebbero partecipare a quest’edizione Massimo Popolizio e ricci\forte. Per ciò che riguarda la scena britannica, andando spesso a Edimburgo e Londra per vicende giornalistiche, mi sono innamorato di quel modo libero, comunicativo, di quella cultura che porta a teatro i giovani per discutere di temi interessanti, violenti, sociali. Così è nata Trend, che quest’anno propone al Teatro Belli di Roma, nelle prime due settimane di aprile, cinque spettacoli, cinque novità.
L’attività di curatore, dunque, è andata di pari passo a quella di critico. Ma l’una e l’altra sono mai state in conflitto?
R.d.G.: Mi è capitato, di fronte a qualche sospetto di questo tipo, di rispondere ad altri e a me stesso. Cosa significa creare committenze, avere attori e registi che operano dentro una tua rassegna? Significa mettere in essere un conflitto d’interessi? Sono sempre stato molto onesto con gli artisti, non ho mai fatto capire che la partecipazione a mie manifestazioni garantisse un trattamento privilegiato o l’appartenenza a un clan; ho fatto capire che se un loro lavoro non mi avesse convinto sarei stato sempre il critico di Giammarco. Per altro, dato che sono molto “socializzante”, quando frequento gli artisti come giornalista, sono disposto a rapporti profondi e confidenziali, perché credo di appartenere al loro mondo, senza avere nessuna matita rossa e blu all’orecchio.
Dal 1979 critico di Repubblica, tanti gli spettacoli visti, e vissuti. Oggi perché va a teatro?
R.d.G.: Per essere sconvolto. Non posso accettare l’idea che una novità o un classico rinomato mi propongano uno standard, un format di comunicazione umana, di specchio della società che ho già in mente come parametro, come trama dell’esistenza. Non devo vedere una cronaca di quanto mi accade: il teatro deve andare oltre, deve prevedere, deve ammonire, deve scandalizzare, essere devastante, sia da un punto di vista autoriale che registico e di impatto scenico. Anche se rispetto il teatro di intrattenimento, che ripaga delle fatiche umane, non è possibile andare a vedere qualcosa di confortante, la manifestazione di ciò che sappiamo del mondo – trovo che questo sia esiziale.
Dobbiamo portarci via qualcosa che apparentemente ci addolora, apparentemente ci svia, che ci toglie una sicurezza. Mi interessa il teatro che mi dà un pensiero in più, che mi toglie un sorriso, che mi infligge una ferita. Uno star male per essere migliori.
Il programma completo di Nuove drammaturgie in scena
Intervista a cura di Rossella Porcheddu