La legge sull’aborto approvata alla Camera
Conquista sociale
di Luca Bernardelli
La Stampa Anno 112 – Sabato 15 Aprile 1978
Per la seconda volta in meno di un anno, la Camera ha approvato la legge che dà alla donna il diritto di decidere se portare a termine una gravidanza o se, in presenza di precise circostanze negative, interromperla. Al di là delle attese di chi chiedeva una completa liberalizzazione dell’aborto, è questo un grande passo avanti nella battaglia per l’emancipazione femminile; si allontana l’ombra angosciosa del grande numero di aborti clandestini, con il carico di sofferenze, di umiliazioni, di soprusi, di morti atroci che si portano dietro; è una conquista della società, sia pur sofferta da molte coscienze che considerano inviolabile la vita umana, anche nelle sue primissime manifestazioni.
Alla luce della nuova legge, appare ingiusto e sproporzionato il grido lanciato con le lacrime agli occhi da Adele Faccio nell’aula di Montecitorio: «Avevamo sperato, avevamo condotto da anni una lunga battaglia, ma nulla è valso. Le donne dovranno ancora ricorrere all’aborto clandestino».
Questo non è vero: i tre princìpi fondamentali della legge (depenalizzazione dell’aborto, autodeterminazione della donna, assistenza gratuita) sono stati approvati e, salvo nuove sorprese al Senato, regoleranno le scelte per una maternità cosciente.
Malgrado l’ostruzionismo radicale (ieri interrotto, forse in seguito a qualche patteggiamento segreto: ma Pannella ha respinto con sdegno l’insinuazione), la legge che sembrava dover spaccare in due il Paese è stata rapidamente approvata. Nella drammatica incertezza del momento politico i due maggiori partiti italiani hanno ben compreso che non potevano lasciare spazio a nuove laceranti fratture, non potevano correre il rischio di doversi affrontare tra due mesi nello scontro per il referendum, che avrebbe assunto i toni di una guerra di religione.
Si è così scelta la via di un ragionevole compromesso; che per la democrazia cristiana non ha significato la rinuncia ai princìpi etici e religiosi che stanno alla base della sua opposizione all’aborto, bensì il riconoscimento realistico che lo schieramento abortista aveva la maggioranza e che quindi la battaglia non era per impedire la legge, ma per modificarla e renderla un pò meno «inaccettabile». Da parte comunista il compromesso ha significato non respingere quegli emendamenti che, senza intaccare i contenuti più caratterizzanti della legge, potevano contribuire ad attenuare l’opposizione della de.
I compromessi sono stati talvolta più formali, come sull’articolo 5, che nella nuova stesura prevede la consultazione del padre (alla quale, peraltro, la madre può opporsi); talvolta più sostanziali, come sull’articolo 12, che ha elevato da 16 a 18 anni (cioè alla maggiore età) il termine prima del quale la ragazza, per abortire, deve avere l’assenso di chi esercita la patria potestà, e in mancanza di questo deve rivolgersi al giudice tutelare.
E’ questo un emendamento che ci pare non tener conto della realtà dei nostri giorni né dell’evoluzione del costume sessuale. Al limite può essere giudicato illogico perché, pensando ai gravi pericoli per la salute psichica della donna previsti dall’articolo 4 della legge, appare più facile che abbassandosi l’età della giovane aumenti il rischio di un trauma distruttivo dovuto a una maternità non voluta. «Proibire l’aborto a una ragazza che “non ha l’età per amare” — aveva scritto su queste colonne Carlo Casalegno — può essere la più crudele delle sentenze contro un nascituro innocente e contro una donna che la stessa legge sulla maggiore età classifica come immatura».