Recensione di Zio Vanja –Teatro Mossovet di Mosca – Andrei Konchalovsky
Anton Cechov nella vita di Andrei Konchalovsky è una “felice ossessione”. Di formazione e passione cinematografica, il regista moscovita porta per la seconda volta in tournée europea assieme al Teatro Mossovet di Mosca un testo di Cechov: Zio Vanja (nel 2007 era la volta de Il gabbiano). Il primo Zio Vanja, Konchalovsky lo immortala nella pellicola nel 1970; oggi, a 150 anni dalla nascita dell’autore russo, il regista lo riporta sulla scena (in Italia in prima mondiale).
Storia di una famiglia in cui Serebriakov, malato ex-professore in pensione, accompagnato dalla giovane e bella seconda moglie, torna nella casa in campagna dove vivono la brutta figlia avuta con la prima moglie e il fratello di quest’ultima: zio Vanja.
Assieme alla suocera, un vecchio amico, la balia e il dottore, i protagonisti trascorrono le proprie esistenze intrappolate nel disegno che il destino ha riservato loro. L’intreccio verte e si solidifica, nell’emergere dell’insoddisfazione, della sofferenza e della sopportazione dei protagonisti, e nei vani tentativi di cambiamento delle proprie esistenze.
La regia pone grande attenzione alle relazioni tra i personaggi; Konchalovsky stesso spiega siano proprio i loro comportamenti ciò che più lo interessa, le sole cose del testo che restano oggi immutate nel tempo. Infatti non sono gli aspetti socio-politici o storici ad essere deteminanti, ma i comportamenti attraverso cui ogni personaggio si esprime.
Cechov, come specifica Konchalovsky allapresentazione dell’opera, rende la loro noia interessante: sono esseri umani per niente speciali, men che meno eroici, la loro è semplice umanità. Infatti – precisa nelle note di regia -: “È facile volere bene agli eroi di talento che non sono prostrati dal dolore o dalla vita stessa. È difficile volere bene ai filistei mediocri, incapaci di un atto eroico. Cechov vuole bene a questa gente, perché sa che anche essa morirà”.
L’impianto scenico è storicamente ammobiliato e intelligentemente rispecchia e arricchisce di senso le dinamiche dei personaggi a seconda di come è vissuto. Con una pedana centrale come nucleo domestico, corridoi ai quattro lati e zone in cui gli attori che “escono di scena” rimangono visibili (seduti su sedie poste in fondo ai lati del palco). La suddivisione spaziale determina le figure, collocandole nelle loro centralità o marginalità familiari: la giovane moglie Elena, spesso sulla sua altalena, sembra isolarsi nella propria irraggiungibile dimensione di retorica e leggerezza irraggiungibili; la figlia Sonja, benché legittima proprietaria della casa, è spesso sui gradini che rispecchiano – molto più delle poltrone – l’importanza che ella stessa si conferisce; così il medico Astrov, personaggio marginale ed esterno alla famiglia, preferisce non frequentare il nucleo adibito ai familiari. Spazio dal quale Vanja, invece, volente o nolente non può sottrarsi.
Emerge un umorismo spesso amaro, i ritmi sono ben studiati, “le pause in Cechov – tiene a dire Konchalovsky – sono più importanti delle parole”.
Gli attori (tra cui: Pavel Derevyanko, Yulia Visotskaya e Alexander Domogarov) sono molto abili ed esprimono con profondità le gioie e i dolori che tormentano i personaggi.
Probabilmente non sperimentale o avanguardista, Zio Vanja di Konchalovsky è senza dubbio un esemplare disegno organico di regia e recitazione di grande livello. Discutibili le occasionali proiezioni che immobilizzano una percezione dello spettacolo altrimenti fluida.
Ma aldilà di analisi e tecnicismi, vincono le emozioni e i ritratti dei personaggi cechoviani.
Visto al Teatro Franco Parenti, Milano.
Agnese Bellato