Recensione a Ad altezza d’uomo – Teatro delle Quattroequarantotto
Teatro civile, di denuncia, inspirato a fatti reali di cronaca: non sempre significa un testo crudo, magari al limite della retorica. Si può anzi trasformare in una visione onirica accompagnata da motivi leggeri, suonati da una tastiera all’angolo del palco, e raccontata da tre giovani attori che concentrano la loro narrazione sulla vita più che sulla morte. E, infatti, la morte – quella di Gabriele Sandri, ragazzo di 28 anni freddato in un autogrill l’11 novembre del 2007 da un colpo di pistola esploso da un poliziotto che si trovava dall’altra parte della carreggiata – viene definita come “un rapporto a distanza con la vita”.
Il Teatro delle Quattroequarantotto debutta sulla scena nazionale con un lavoro forte di una scelta drammaturgica coraggiosa: Lodovico Guenzi scrive un fiume di parole che travolge lo spettatore trascinandolo in un mondo surreale di sogni, visioni, desideri. Un immaginario giovanile che diviene poesia e pura energia: i tre attori – insieme allo stesso Guenzi, Fabrizia Boffelli e Natalie Fella – non si limitano a narrare una storia; quella che raccontano è una vitalità coinvolgente, spensierata, che si allontana dalla realtà per poter correre, libera, nella fantasia.
Il palcoscenico, completamente scarno – con solo tre sedie in scena e lapiccola tastiera – non viene mai percepito come vuoto, perché i tre ideatori ed interpreti lo abitano con disinvoltura, dimostrando di saper reggere un lavoro interamente incentrato sulla parola e sui loro corpi, e riempiono lo spazio con la loro immaginazione e quella del pubblico, continuamente stimolata a “lavorare” con loro. Solo in brevi momenti la magia costruita viene rotta: quando il fatto reale torna, per un attimo, nella memoria. Esattamente come un colpo, un unico colpo ma sparato Ad altezza d’uomo, in un istante distrugge una vita, con spiazzante coerenza la storia di Gabriele Sandri torna solo a sprazzi a quel fatidico giorno all’autogrill.
Il proiettile si insinua come un fulmine a ciel sereno in un racconto che è un vero inno alla gioia e alla vita – perché a parlare è un “io, che non contano le ore di sonno ma le ore di vita”. Un colpo che trafigge un mondo surreale, riportando il pubblico alla realtà.
La denuncia non viene mai urlata; resta, anzi, sussurrata, accennata: bastano poche parole a ricostruire quel fatto; è per raccontare tutta una vita che le parole non bastano.
Ad altezza d’uomo diviene così una riflessione sulla giovinezza e la fatalità. Lo spettacolo ricostruisce la semplicità e l’unicità dell’esistenza umana, restituendone l’aspetto più impalpabile e forse più difficile da rappresentare: il senso più profondo della vita. E la sua fragilità. Accompagnati da Alessandro Dinapoli con un valzer delicato (composto dallo stesso Guenzi), il gruppo restituisce quell’atmosfera fragile di un’età in cui ci sente invincibili.
Un’impresa ardua ma che la giovane compagnia affronta con fermezza e convinzione, colpendo nel segno: in un paradosso costruito ad arte, lo spettatore si trova travolto in un mondo onirico, in cui la fantasia è libera di viaggiare senza freni; in questo mondo è la realtà, il fatto di cronaca, che diviene assurda, incredibile, surreale. Un ragazzo ucciso in un autogrill da un colpo sparato da “un’arma di Stato”: è l’unico racconto, tra le miriadi di immagini folli e fantasiose con le quali i tre attori riempiono le menti del pubblico, a cui si fatica davvero a credere.
Il teatro delle Quattroequarantotto costruisce così non solo un bel lavoro, ma anche e sopratutto uno dei più sinceri e coerenti omaggi che si potessero fare in memoria di Gabriele Sandri – per gli amici: Gabbo.
Visto al Teatro Aurora di Marghera
Silvia Gatto