Che il teatro sia un rito comunitario lo si è detto molte volte; ma lo si può comprendere concretamente recandosi in un luogo e assistendo a quello che ormai da 52 anni senza sosta è il Teatro Povero di Monticchiello.
Nel cuore della splendida Val d’Orcia questo piccolo paesino nei mesi estivi di luglio e agosto si trasforma e i suoi abitanti diventano gli autori, attori e interpreti di ciò che Giorgio Strehler per primo definì autodramma della gente di Monticchiello, diventato poi sottotitolo di tutti gli spettacoli portati in scena.
Sviluppatosi negli anni ‘60 come forma di resistenza alla crisi della mezzadria, questa forma di rappresentazione – che è anche e soprattutto un’esperienza di relazione – è nata a partire da un’urgenza: in un paese privo di un teatro dove potersi aggregare, i suoi abitanti avevano bisogno di sentirsi parte di una comunità che andava sfaldandosi, perdendo le sue sicurezze e la sua identità. Hanno compreso che nell’auto-rappresentazione potevano trovare la forza per affrontare le sfide e gli interrogativi del quotidiano in continuo cambiamento, un modo in cui specchiarsi e poter così riflettere insieme sui problemi a loro vicini.
E una delle cose straordinarie di Monticchiello e del suo Teatro è che questi abitanti – che di giorno svolgono altri lavori e la sera diventano attori – non scelgono un testo già scritto da portare in scena in Piazza della Commenda, ma sono autori di una costruzione drammaturgica partecipata (per saperne di più suggeriamo l’approfondimento di Gianpiero Giglioni). E così ogni anno a marzo inizia la scrittura comunitaria mentre a giugno si passa all’allestimento sempre sotto l’occhio attento ed esperto di Andrea Cresti che dal 1981 firma le regie ed è descritto da tutti come il collante fondamentale di questo incredibile e duro lavoro che poi a luglio e agosto riempie il cuore di tutti, partecipanti e spettatori.
Forse uno dei segreti del Teatro Povero sta proprio nella condivisione di intenti, di idee, di sogni; ma è anche negli sguardi che gli attori si scambiano dentro e fuori la scena – come succede nella meravigliosa Taverna di Bronzone allestita appositamente durante le repliche dello spettacolo per accogliere abitanti e pubblico in cene conviviali –, nei bambini che prendono parte alla messinscena, nelle risate che si sentono tra i vicoli del paesino e che lo fanno essere vivo, pulsante.
E così nell’ultima serata prevista per Valzer di mezzanotte – questo il titolo dell’autodramma del 2018 – la pioggia non ferma l’entusiasmo: fino all’ultimo si asciugano sedie, si montano palco e luci, si guarda il cielo sgombro da nuvole minacciose all’orizzonte; da una delle finestre affacciate sulla Piazza della Commenda alcune signore scrutano lo slargo che via via si va animando con il pubblico che tira un sospiro di sollievo perché anche per questa sera Monticchiello avrà la sua festa.
In Valzer di mezzanotte gli attori/abitanti si ritrovano tutti insieme a una cena – come fosse una grande rimpatriata per un matrimonio o una festa non meglio specificata – e con grande naturalezza ognuno di loro prende parola in un botta e risposta che tratta argomenti del nostro quotidiano. Se dapprima ci si saluta in maniera un po’ beffarda dato che ci si ritrova a “festeggiare i 20 anni di questa crisi con una cena riparatrice delle ansie che ci assillano” – come specifica uno dei protagonisti –, a mano a mano ci si addentra in tematiche che preoccupano la comunità: dalla ludopatia dei più grandi all’apatia dovuta alla dipendenza da smartphone dei più piccoli, passando per l’occupazione giovanile da affrontare con strampalati contratti a tempo di 15/20 minuti, ma anche per il razzismo e l’emigrazione.
È un intelligente crescendo ritmato e coinvolgente che sfiora in maniera mai didascalica problemi che riguardano l’uomo di oggi attraverso una coscienza contadina dove gli uomini progettano la divisione di vecchi poderi e le donne puliscono e riordinano il luogo dove si è svolta la cena, commentando le scelte di figli, cognati, nipoti, mariti… e nell’avvicendamento dei discorsi si intrecciano piccole lampanti verità che hanno quel giusto sapore meta-teatrale dove la cena è un’iniziativa sociale (come lo stesso progetto del Teatro Povero) mentre le manifestazioni e le proteste evocate per i propri diritti sono solo spettacolo. Sono crepe di una saggezza proletaria che si mette da parte invocando una modernità che “nasconde solo miseria” come chiosa uno degli attori.
E quando si cammina sul sottile filo che separa la verità da quella che potrebbe essere retorica ecco spuntare dei curiosi manichini dalle teste di rete che appaiono come deus ex machina e a cui tutti i protagonisti rivolgono incessanti quesiti su finanza, lavoro, futuro; ma non sono loro la soluzione, rimangono in silenzio, come figure arrivate da un altro pianeta, piccoli idoli creati dagli uomini che restano soli con gli stessi dubbi.
Come a dire che la soluzione alle proprie esistenze non sarà imposta dall’alto o da una forza esterna; non rimane che stringersi tutti insieme su di una zattera e andare alla deriva o verso una salvezza, chissà… E proprio l’immagine di questa zattera, che tutti gli attori/abitanti di Monticchiello ricreano in scena, è struggente e commovente, come la stessa voglia di riscatto che conclude il Valzer di mezzanotte in cui avanza la consapevolezza che la libertà e il diritto di sognare vanno riconquistati con la stessa forza con cui una intera comunità da 52 anni continua a dimostrare che il teatro oggi ha ancora senso e necessità di esistere.
Carlotta Tringali