Recensione a L’Avaro – Teatro delle Albe
L’Avaro del Teatro delle Albe, al suo debutto, al Teatro Storchi di Modena, si presenta subito con una stratificazione di finzione e di pensiero, di rappresentazione e di critica, fin ancora da prima che lo spettacolo cominci: con il pubblico in sala e le luci ancora accese dei servi di scena smontano e portano fuori quella che sembrava essere la scenografia. Lo spazio resta vuoto e buio, di un nero materico che, pur nelle rare sfumature dei verdi e dei sabbia, materializza la commedia più nera di Molière, che si pone, con questo allestimento, a fianco degli altri «antenati preferiti» del regista Marco Martinelli: Aristofane e Jarry. Fra gli elementi scenici che scompaiono, anche dei riflettori televisivi e un monitor su cui si mostra l’entrata in sala del pubblico. Avvertimento sottolineato in più modi – all’inizio e durante tutto lo spettacolo – che pone l’accento sul linguaggio, l’immaginario, il meccanismo televisivo utilizzato poi per tutta la rappresentazione e rimanda, decisamente e fin da subito, ad una sua critica a più livelli, che si fa eco in ogni scena, gesto e parola, con tanto di ripetizioni e tentativi di mettersi in luce, applausi registrati e un mega-sorpresone finale destinato a riunire una famiglia perduta tanti anni prima.
L’Avaro è uno spettacolo che in parte si allontana dalle “reinvenzioni” precedenti del Teatro delle Albe, costituite da scritture o riscritture di Marco Martinelli ad hoc per i suoi attori: la parola – che fu di Molière e che qui è aguzzata dalla magistrale traduzione di Cesare Garboli – rimane apparentemente intatta. Ma, calata nella gestualità sovraccarica, sembra “maltrattata” dall’interpretazione, in un meccanismo di incarnazione nell’azione del tutto originale, che trova il suo apice nella scena della discoteca, in cui ognuno sembra ballare una musica propria e in cui il testo è stravolto dalla concitazione dei gesti, dall’affanno e dal sudore. L’Avaro vive di uno sprofondamento della parola nelle persone che danno vita allo spettacolo, in linea con la ricerca delle Albe, ma anche con la creatività di Molière, che ha composto gran parte dei suoi testi per i suoi attori. E si anima di un’interpretazione corale, tutta giocata sul doppio e sull’ambizione, variopinta e caricata, che fa da contrappunto alla presenza quasi incisa dell’Arpagone affidato all’interpretazione di Ermanna Montanari. Nel corso dello spettacolo, a fianco dell’eccellente e inquietante Avaro, si mostra, ancora una volta, un lavoro d’attore capace di utilizzare, insieme, diversi registri interpretativi e che si fa gioco, post-brechtianamente, dell’immedesimazione, che pure usa, essendo tutte le azioni sviluppate su più livelli compresenti in scena, con cambi a vista e i servi che, oltre a spostare l’arredo, si occupano anche di dirigere i movimenti dei personaggi.
Arpagone – creatura nerissima che domina, concettualmente e nei fatti, tutti i personaggi e le azioni dello spettacolo, con il suo scettro-microfono a cui ognuno tenta di ambire e con i gesti minimamente incisi, come in una stampa espressionista – sembra piombato in una soap-opera americana degli anni Settanta, fra intrighi d’amore e superficialità, colpi di scena e ricatti, carta da parati a fiori e abiti pastello: unico personaggio in tutto e per tutto teatralissimo, dalla modulazione della voce alla gestualità alla efficacissima ricerca sulla mimica facciale. E, anche in questo, unica figura della, pur brutale, coerenza: sempre se stesso, tutto d’un pezzo, si mostra per quel che è, in una storia in cui tutti sono molto diversi da quel che sembrano e numerosi elementi ammiccano alla più spietata finzione televisiva.
Il capovolgimento e la contaminazione messi in atto fra scena e platea – così come il pubblico “compare” in scena, prima che lo spettacolo cominci, questo Avaro è uno spettacolo che tenta di debordare in tutti i modi oltre il proscenio – si sviluppano lungo tutto lo spettacolo per concludersi addirittura con una fugace apparizione del regista, destinato a riportare in equilibrio l’andamento della vicenda (tanto nella realtà, quanto nello spettacolo), nei panni di Anselmo, il padre perduto di Mariana e Valerio, che possono così realizzare i loro sogni d’amore. Sconfinamenti e rispecchiamenti, reciproci e contaminati, stanno forse ad indicare – come suggerisce l’incipit delle note allo spettacolo: «Sono tanti gli Avari…» – che Arpagone, che pone il denaro davanti a tutto, terrorizzato dalla perdita dei suoi beni, rinchiuso nella sua cas(s)etta fra mille ipocrisie, non rimane sulla scena, ma si può trovare ovunque nel mondo Occidentale così ossessionato dall’avere e magari in un pezzetto di nero anche dentro ognuno di noi.
Roberta Ferraresi
Visto al Teatro Storchi di Modena.