Dopo aver dialogato con le drammaturghe Yolanda Pallin, Beth Escudé e il direttore artistico della rassegna Il teatro in tempo di crisi Adriano Iurissevich circa la scena teatrale in Spagna, il docente Marco Presotto incontra Margaret Rose e Armando Pajalich per offrire una rapida panoramica di quello che accade oggi nel campo della drammaturgia di lingua inglese.
Nel secondo pomeriggio della rassegna veneziana sottotitolata La settimana di drammaturgia contemporanea, la studiosa Margaret Rose – che si interessa soprattutto del teatro britannico che cresce nelle città di Londra, Glasgow ed Edimburgo – ha parlato dell’incredibile varietà dell’organizzazione teatrale presente nel territorio anglosassone a livello di fondi. Se in Italia la figura del dramaturg è difficilmente riconosciuta, in Gran Bretagna il Consiglio delle Arti nutre e sostiene gli scrittori che si dedicano al teatro. In questo modo un drammaturgo non deve vivere esclusivamente nelle grandi città per lavorare, ma può benissimo scrivere dal suo paesino in campagna. A Glasgow esiste addirittura “la casa del dramaturg”: un centro in cui la persona viene seguita, senza dover essere necessariamente giovane. Sempre in Scozia è stato fondato anche un sindacato per questa figura di artista: si restituisce una dignità a un lavoro che è riconosciuto come tale e non come un passatempo. Nella sua analisi – da fare invidia ai dramaturg italiani costretti a restare spesso in ombra per mancanza di fondi – Margaret Rose specifica anche come negli ultimi decenni il teatro politico si sia trasformato, nella sua struttura drammaturgica, seguendo due diverse tendenze. La prima corrisponde a una specie di talk-theatre, ossia una scrittura teatrale che utilizza dibattiti televisivi e frammenti di talk show e di blog, risultando così più vicino alla tecnologia; la critica accusa in questa modalità una mancanza di originalità, ma il talk-theatre diventa una possibilità per registrare realmente quello che sta succedendo nella società. La seconda tendenza è quella del sight related theatre: creare spettacoli fuori dai teatri, modificarli a secondo del territorio in cui questi vengono presentati per creare una reale comunicazione tra le persone.
Ma a scrivere in lingua inglese non sono solamente i dramaturg viventi sull’isola britannica: il docente, studioso e traduttore di letteratura postcoloniale Armando Pajalich ha infatti sottolineato come molto teatro sia stato prodotto fuori dai confini europei. Uomini come il nigeriano Wole Soyinka, il caraibico Derek Walcott – entrambi premi Nobel per la letteratura – e il sudafricano Athol Fugard sono i tre esempi che Pajalich utilizza per dimostrare come scrittori di alto livello restino ancora sconosciuti a molti per via della loro marginalità geografica. Non è facile infatti mettere in scena le loro drammaturgie fuori dai loro territori, per diversi motivi. Per esempio Soyinka si dedica a problematiche di origine sociale, parlando di grandi tirannie o di personaggi della mitologia africana; per rappresentare questo mondo, per noi lontano, sono necessari codici e gestualità per tradurlo, attori che abbiano innata questa cultura per interpretarlo. Altro problema in cui ci si imbatte lo si ritrova mettendo in scena Walcott: il suo teatro poetico, fatto di canzoni, dovrebbe essere proposto all’aperto, in riva al mare, al caldo tropicale dei Caraibi per comprenderlo fino in fondo e per immergersi nei suoi scritti. L’ultimo scrittore di cui parla Pajalich è Athol Fugard – conosciuto per la recente riproposizione teatrale di Peter Brook di Sizwe Banzi est mort – che crea dei testi esclusivamente interpretabili da attori africani per essere compresi, perché richiedono una gestualità che non appartiene all’uomo europeo. Anche se lo stesso Fugard, bianco, ha creato in Sud Africa un teatro nero che non esisteva: è stato il primo a mettere sullo stesso livello in una pièce teatrale uomini di diverse etnie, dando a tutti la stessa dignità. Ultimo problema sollevato e che si riscontra nella rappresentazione di questi testi è dato dalla lingua: un inglese “imbastardito” con termini del linguaggio locale, della propria terra. Nella traduzione la potenza di questa si perde, perché non ci sono veri termini italiani corrispondenti. Ma piccoli tentativi vengono fatti fortunatamente, come è stato dimostrato in chiusura di questa seconda giornata di convegno: la lettura scenica a cura di Pantakin da Venezia dell’interessante testo Fix up di Kwame Kwei Armah ha aperto a un mondo nuovo per quanti non conoscevano quest’autore. Molti passi devono essere fatti per arrivare a delle traduzioni che restituiscano il più possibile la visione di questi autori a noi culturalmente lontani ma l’importante è fare questi primi passi e iniziare.
Carlotta Tringali