Dopo tre giornate intense di convegno de Il teatro in tempo di crisi – Settimana di drammaturgia contemporanea, in cui sono stati affrontati differenti argomenti da altrettanti punti di vista di studiosi, docenti e scrittori, si è giunti all’incontro conclusivo. Dopo aver analizzato a fondo il testo I figuranti di José Sanchis Sinisterra con lo stesso autore e ascoltato alcune considerazioni interessanti riguardo a un testo scritto vent’anni prima e presentato attraverso una lettura scenica nella stessa mattina dai giovani dell’Accademia Teatrale Veneta, numerose personalità hanno espresso le proprie riflessioni circa la situazione teatrale attuale.
Non proprio una tavola rotonda, quanto un semicerchio aperto a un pubblico che paziente e partecipe ha espresso le proprie perplessità e opinioni. Monica Centanni docente e studiosa di teatro antico e drammaturgia greca, ha incalzato sul ruolo fondamentale che il teatro ha nella nostra società e su come la crisi economica che stiamo affrontando debba essere occasione di riflessione sul nostro vivere civile. Lo spazio del palco, un tempo rituale nella Grecia del V secolo, ha oggi ridotto questa sua caratteristica arcaica: ma deve affrontare attualità urgenti e non rimanere marginale. A questa tematica si collegano i pensieri del direttore scientifico del convegno Paolo Puppa che afferma come il teatro debba ripartire oggi da spazi dove esso è socialmente necessario come nelle carceri, per aprire una finestra in un luogo dove altrimenti si soffocherebbe. Docente e scrittore, Puppa si spinge oltre affrontando anche il rapporto tra platea e palco: non esiste infatti il teatro e il pubblico, ma i teatri e i pubblici; si ha il teatro di festival, il teatro di ricerca, il teatro fuori dal teatro e quello istituzionale. Ma questi possono delle volte anche mescolarsi come è successo negli Anni ’70 con il fu direttore del Teatro Argentina di Roma Luigi Squarzina, che portò a dialogare il mondo dello Stabile con il teatro off delle Cantine Romane: in quel caso si era creato un “ponte” – come Puppa stesso lo definisce – tra pubblico e platea, una condivisione e uno spiazzamento creando una condivisione, un’apertura di dialogo con un pubblico antagonista. Continua sostenendo che il teatro che ospita il presente – come può essere anche il teatro di narrazione o il teatro che ha visto un ingresso/collaborazione con la video-arte – deve ospitare anche un linguaggio attuale e non finire nel taglio giornalistico come spesso invece accade. Proprio per questo vede una grande occasione, per la nuova drammaturgia, nella lingua: oggi assistiamo infatti a un trilinguismo dato dal dialetto locale, un italiano standard e l’italiano incerto degli immigrati. Un intarsio espressionistico che crea dinamiche inaspettate e affascinanti tramite le memorie e le lingue diverse. Un modo per sorprendere e la sorpresa a teatro è fondamentale.
Una parola che ovviamente ritorna spesso tra i diversi relatori del pomeriggio è “crisi”: il drammaturgo francese Enzo Cormann spiega infatti come lo stesso lavoro di dramaturg metta continuamente sull’orlo di una crisi e ciò va visto come momento positivo, un risveglio di pensiero e un momento per chiedersi anche che ruolo abbia oggi il teatro. Se il cinema – e cita qui Jean-Luc Godard – fa vedere la realtà attraverso una camera, il teatro permette invece di vedere ciò che senza di esso non saremmo in grado di vedere: il rallentamento. Se la realtà ha subito un’accelerazione, l’assemblea teatrale – ossia la somma di persone che assiste alla rappresentazione – rallenta l’andamento vertiginoso che sta riducendo la comunicazione a un valore svuotato di significato. E di crisi parla anche un altro drammaturgo, lo spagnolo José Sanchis Sinisterra che auspica a una ricerca permanente – perché sostiene che la crisi in realtà c’è sempre stata – inventando altre formule di produzione e distribuzione per portare il teatro ad avere un’incidenza civile molto più ampia. Lo scrittore e attore Roberto Scarpa aggiunge che si deve puntare all’inatteso e ricominciare, cercando di non sottovalutare gli aspetti pratici come l’attività legislativa che cura il teatro: gli artisti si dovrebbero infatti occupare del teatro anche con fatti concreti e non sottrarsi per snobismo, partecipando per esempio alla costruzione dei luoghi teatrali, capire dove questi vanno costruiti e come.
Il docente Claudio Longhi affronta, come le definisce lui, “piccole note a margine” di un convegno: brevi riflessioni sature però di interrogativi scomodi lasciati aperti. Lo studioso parla in primis di una metafisica della crisi, affermando che il vero problema oggi risiede nella questione dell’impegno, del cosiddetto “engagement” che sembra essere diventato marginale. Altro suo pensiero, che si collega al titolo del convegno, è dato da quello che è il rapporto tra teatro e crisi: un rapporto che cavalca un’attualità ma anche una inattualità se il teatro è un antidoto alla velocità del presente. Ricollegandosi al pensiero di Puppa, balza poi ai “pubblici”, a una fruizione teatrale disarticolata; soprattutto si chiede se esista un pubblico o se non ci si limiti a discussioni che purtroppo rimangono confinate dentro una nicchia di appassionati di teatro. Proprio per questo suggerisce che il rapporto con il pubblico vada ripensato, terminando con una domanda aperta, ossia se il teatro è un servizio o un valore. Roberto Tessari, altro docente di alto livello, tira le fila di quello che è stato un convegno vivo e di un teatro altrettanto vivo in questi giorni della rassegna. Ma segnala un vuoto: ossia la partecipazione di una persona che non abbia nulla a che fare con il teatro ma piuttosto con la parola crisi. Una persona che forse non esiste, proprio come secondo lui la parola stessa “crisi”: è una sfinge, una falsa mitologia da cui ci facciamo cullare. Il teatro è un altro tempo e un altro spazio, è una microsocietà: bisogna mettere in movimento la critica, la vivacità drammaturgica e la scenicità dell’attore per rendere le immagini strumenti praticabili per andare oltre.
Carlotta Tringali