Si lascia la laguna veneziana per raggiungere la terraferma, in una limpida giornata che permette di arrivare con lo sguardo sino ai monti innevati, imponenti all’orizzonte; sono lì in tutta la loro grandezza a ricordare che, nonostante il sole, è ancora inverno. È il 7 marzo e sembra di trovarsi in gita scolastica, forte è l’entusiasmo e tanti sono i giovani che affollano il Teatro Toniolo di Mestre per l’atteso incontro con il regista teatrale argentino César Brie, promosso dalla Fondazione di Venezia. Capelli grigi spettinati, occhi azzurri e sguardo sempre attento, l’uomo che ormai da più di 18 anni guida Il Teatro de Los Andes racconta la passione immensa per il suo lavoro a cui si è avvicinato inizialmente solo per vincere la sua timidezza – come spiega a una ragazza che dal pubblico gli chiede dei suoi esordi.
Dapprima introdotto dallo studioso Fernando Marchiori, dal Vicepresidente della Fondazione di Venezia Gianpaolo Fortunati e dall’Assessore alla Produzione Culturale del Comune di Venezia Luana Zanella, Brie è presentato come un uomo impegnato e attento nei confronti di quelle classi umiliate e povere che abitano il sud del mondo. Marchiori in particolare, che da tempo segue il Teatro de Los Andes, anticipa come il regista faccia attenzione al presente e alle culture native del Sud America.
Accompagnato dal suo inseparabile amico e socio Paolo Nalli – co-fondatore della compagnia che ha sede in Bolivia -, Brie prende parola e conduce la platea attraverso i suoi ricordi, dentro quelle vicende che hanno segnato nel profondo la sua esistenza. Brie racconta di quando, in particolare, ha lasciato il suo paese natio, l’Argentina, per trovare esilio in Italia; di come sia riuscito a risparmiare soldi per quattro anni e poter così aprire un proprio teatro in Bolivia, paese privo di qualsiasi cultura teatrale prima dell’arrivo de Los Andes. Il regista narra poi della sua Odissea personale e di quella che metterà in scena nel teatro mestrino il 22 aprile con una compagnia, quella boliviana, con cui si identifica pienamente: il soggetto narrante è quasi sempre ‘noi’.
Entrando nel merito dello spettacolo, César Brie lo descrive come un processo di ricerca su loro stessi, su quando sono stati, per esempio, Circe, o quando Polifemo. “Lavoro molto facendo domande ai miei collaboratori, raccolgo poi immagini e risposte – continua il regista -. Le domande intorno a Odisseo dovevano farmi scoprire con chi stavo lavorando. Alcune immagini come una sedia a rotelle, che ricorda l’esperienza di un attore con la mamma invalida, e altri elementi molto personali, rimangono nello spettacolo e sono humus vitale per noi, anche se allo spettatore tutto ciò non può arrivare in maniera diretta.”
Odissea affronta alcuni temi caldi dell’attualità, primo fra tutti quello dell’emigrazione boliviana. Trattare un tema classico per approdare al presente è una necessità che il gruppo teatrale sente per la seconda volta: dieci anni fa era infatti iniziata la rilettura dei poemi epici con l’Iliade. Ma mentre l’Iliade indaga il tema della violenza e ha un’unità di luogo, quest’ultimo lavoro parla di mondi differenti e di spazi che si aprono, di un Ulisse che, ritornato dopo parecchi anni a casa, non riconosce la sua terra. È un uomo che torna a Itaca deportato e che si rispecchia in coloro che in Bolivia hanno lasciato casa e famiglia per cercare altrove una vita migliore. In questo paese sud-americano un terzo della popolazione se ne è andata, soprattutto verso gli Stati Uniti, lasciando uno stato che, senza forza-lavoro, non può che peggiorare dal punto di vista di qualità della vita per coloro che rimangono. È per questo motivo che il regista, emigrante e immigrato in un luogo che molti abbandonano, sente da vicino questo problema, così come lo sente lo stesso pubblico boliviano che segue il Teatro de Los Andes assiduamente, perché sente che parla a lui, di lui e della sua situazione.
Continuando a parlare dello spettacolo e delle scelte registiche, Brie dice di aver collocato i mostri, presenti nel poema omerico, proprio nella migrazione e nel viaggio: il Mare Caraibico – che molti boliviani devono attraversare per passare la frontiera – è infestato da pescecani: è molto più difficile riuscire a sopravvivere in quel mare che non nel Mediterraneo a noi più vicino, anche se quest’ultimo è spesso teatro di tragedie. Non per niente, il treno merci che i migranti usano per raggiungere gli Stati Uniti, viene chiamato ‘la bestia’.
Tra tutti i personaggi che il Teatro de Los Andes analizza nello spettacolo, curioso è quello della sirena che qui si allontana dalla figura che nel Medioevo si identificava con la donna-pesce. Essa rappresenta il canto della nostalgia, un canto che parla dell’Io che è proprio di chi è in ascolto. Brie entra nel particolare, spiega il perché alla presenza della sirena si muore: ci si dimentica di se stessi sentendo cantare del proprio Io. E il primo grande rischio di chi è emigrato è proprio questo: dimenticarsi di sé e ancorarsi al passato. Nella tradizione andina questa figura esiste e si rispecchia nello sciamano chiamato sileno: egli porta lo strumento musicale nell’acqua aspettando che il demonio lo suoni; nell’istante in cui vien suonato deve strapparlo al demonio stesso perché da quel momento lo strumento è stato ‘serenato’ e contiene tutte le melodie dell’universo – che l’artista non dovrà inventare ma scoprire.
Ascoltare César Brie parlare del suo teatro, costruito in Bolivia con grande fatica ma arrivato a ottimi risultati – tanto che ogni rappresentazione registra sempre il tutto esaurito – è come sentire il caldo sole ristoratore sulla pelle e, nello stesso tempo, essere riportati alla realtà invernale della neve sui monti. Forse ci si dovrebbe chiedere perché in un paese da dove molti emigrano il teatro riesce a essere un sole che riscalda e risplende, mentre in Italia questa arte risulta spesso coperta da una coltre di neve, con la minaccia di trasformarsi in un ghiacciaio perenne.
E’ tanto bello quanto necessario sentire parlare di un esperinza e capire che dentro le parole c’é un percorso dove ‘noi’ possiamo ritrovarci, conoscere lo sconosciuto e ritrovare la nostra figura, trovare la parte di noi che vive, una parte di noi che sente di avere vissuto veramente. Ritovare un’esperienza vissuta in prima persona, scomparendo dentro le parole di un racconto che scorre nelle arterie di una vita, la propria vita sconosciuta.