Tre giorni per ventun spettacoli, capaci di condensare croci e delizie del teatro veneto contemporaneo, offrendo uno spaccato “a caldo” di ciò che accade sui palcoscenici della regione – questo l’obiettivo di Sguardi, festival-vetrina itinerante al suo numero “zero”. Risultato ottenuto in pieno fin dalle brochure che annunciavano la programmazione: una tre giorni di letture, danza, prosa, ricerca che non ha lasciato fuori quasi nessuno dei numerosi artisti che popolano i teatri del nord-est. Ecco, quindi che la piccola rassegna diventa una – seppur serratissima – occasione per fare i conti con la creatività di una regione dai celebri trascorsi spettacolari e dal passato recente un po’ stagnante, che da qualche anno è tornata alla ribalta, imponendosi a sorpresa, dal celebre quasi en plein di Scenario 2007, al centro dell’attenzione della scena nazionale. Azzardando un’ipotesi dal di dentro, il merito (a Sguardi lo si può ben vedere) è dell’instancabile attività di produzione, promozione e formazione di cui sono protagonisti i coraggiosi operatori del territorio, dall’originaria Opera Prima curata a Rovigo dal Teatro del Lemming fino al più recente B.Motion di Bassano, all’attività nelle città e nelle vivacissime province.
A Sguardi si è visto tanto del teatro che si frequenta da queste parti – un intrecciarsi di sperimentazione e conservazione entrambe attente soprattutto alla drammaturgia; la persistenza di una vivace linea post-amatoriale, tanto nella ricerca quanto nella tradizione; qualche sopravvivenza di quel teatro civile che una volta aveva reso celebre il Veneto sui palcoscenici di tutta Italia e soprattutto la coesistenza di una varietà di generi come di rado si vede nelle programmazioni, dalla prosa alla performance al circo, fino al teatro sociale e al teatro ragazzi. Attraversamenti di un terzo paesaggio, direbbe Gilles Clément: sempre troppo pieno (di oggetti, di significati o di parola), certo un po’ isolato nei suoi circuiti, con regole e codici tutti suoi, è un territorio artistico e non solo che sopravvive con vivacità, anche alla (o nonostante la) cosiddetta scena nazionale.
Nell’esplosione di estetiche e di stili, di concetti e di contesti, di contro all’etichetta proposta dal titolo della rassegna – “teatro contemporaneo veneto” – sembra si possano individuare, senza forzature acrobatiche, alcune linee-guida che ritornano con forza fra i diversi lavori presentati e li mettono in corrispondenza a quello che sta accadendo sui palcoscenici del resto d’Italia.
Innanzitutto un dato si trova nella monumentalità della quarta parete: fatta a brandelli, superata, derisa e decostruita dal lavoro di tante generazioni del teatro di ricerca e non, questa membrana è tornata ad essere un leitmotiv raramente messo in discussione nei teatri italiani. C’è chi ne fa una protezione, collocandosi nell’alveo tradizionale dell’incorniciamento filo-cinematografico che da un paio di secoli confeziona la vitalità della scena, da Il ragazzo dell’ultimo banco di Veneziainscena-Questanave a Galileo del Tib. E c’è chi ne avvicina i vezzi, le funzioni, i limiti, alle caratteristiche più osmotiche dello schermo, dispositivo rappresentativo per eccellenza della quotidianità contemporanea, del rapporto con se stessi e con gli altri; la “quarta parete-display” torna con continuità soprattutto nei lavori della teatralità emergente, dalla frontalità esasperata di cui Babilonia Teatri ha fatto una cifra stilistica (e politica) a Rivelazione di Anagoor, fino agli attraversamenti di Insorta distesa di Plumes dans la tête. Sembra – non solo a Padova – che dopo decenni di impero mediatico televisivo, con tutte le sovversioni tentate dal teatro, il pubblico sia tornato ad essere innanzitutto voyeur e l’interprete, di frequente, si conferma sulla linea di quell’attore-soma i cui albori si trovano nelle creazioni della cosiddetta Romagna Felix. Proscenio-cornice e proscenio-schermo, naturalmente, si muovono insieme, in contraddittoria simbiosi, destinati a collocarsi allo stesso tempo come muro e come soglia, separazione e unione, fruizione passiva e comunicazione attiva. Sono le facce di una stessa medaglia performativa, forse ulteriore segnale (altri se ne trovano in questioni logistico-organizzative, oltre che estetiche) di un avvicinamento considerevole della scena alle modalità d’azione dell’arte contemporanea. Di più – e non è solo il caso, dichiarato e fortunato, della lezione-spettacolo di Anagoor – dalla protezione monumentale della quarta parete fra scena e platea, o in sua prossimità, emerge a tratti un retrogusto che si potrebbe dire di intenzione didattica. In Galileo, ad esempio, gli attori del Tib vorrebbero far apprendere i nodi dell’esistenza dell’astronomo, attraverso una sua versione umanizzata, più accessibile; mentre Teatro Scientifico tenta di insegnare la cultura dei migranti (attraverso l’esperienza di una giovane moldava) e la giovane Marta Dalla Via conclude il suo Veneti Fair con una rivelazione moral-autobiografica sulla natura documentaristica del proprio lavoro.
L’unica strategia per ragionare sull’antica e sempre attuale separazione fra scena e platea, fra attivo e passivo – con la doverosa eccezione dell’Amleto del Lemming, spettacolo che segna uno sviluppo di tutto rilievo nel lavoro della compagnia – sembra trovarsi nelle aperture del comico. La gag (e la risata) riesce qui come altrove a spaccare barriere (fra gli attori, fra gli spettatori, fra palco e realtà), ponendosi come condensatore socio-culturale, attivatore di solidarietà, collasso della critica nell’ironia. Ma attenzione, oggi come nella tradizione, la comicità possiede uno spirito duplice: se tante volte è la strada più efficace per fare critica, d’altro canto resta sempre un po’ deliziosamente complice. C’è una tradizione, filosofica e non solo, per cui si ride di ciò di cui ci si sente (o si desidera sentirsi) migliori, per distaccarsene. E non è un caso, probabilmente, che tali strategie entrino più spesso in gioco proprio quando si tratta di parlare di cultura, di società, di politica: la tipizzazione che può edulcorare lo stereotipo, la derisione di modelli tanto atroci quanto buffi, la trattazione (auto)critica a tratti affettuosa, sono linee di azione che emergono soprattutto in quei lavori che intendono dichiaratamente riferirsi alla situazione politica del territorio, alle sue paure razziste più o meno giustificabili, alla sua avidità di lavoro e denaro, ai suoi “vizi” più evidenti, dal lavoro nero, giù giù, fino al pettegolezzo di paese e al culto dell’aperitivo.
Oltre gli stili, la tecnica, i formati, occorre dunque un passaggio intorno e dentro la questione tematica dell’identità locale che è a inquietante innesco della rassegna ma, senza tante sorprese, si colloca anch’essa al centro di un interesse più italiano che veneto. Fare i conti con le contraddizioni di un territorio è sulla pelle di tutti (compresi gli scriventi), ma non è sufficiente operare scelte di ordine tematico – forse anche un po’ trendy, di questi tempi – per affrontare il problema. Non è un caso se il lavoro (anche se in fase embrionale) che dimostra più potenza (espressiva, estetica, anche politica) è La bancarotta, riscrittura del dramma goldoniano ad opera di Vitaliano Trevisan presentata in forma di lettura scenica. Non accomodandosi su facili stereotipi, lontano dalla derisione per “tipi”, dalla tentazione documentaristica, dall’azzardata sperimentazione di coincidenze extra-territoriali fra le periferie padane e altre anche oltreoceano, questo lavoro sembra assumersi la responsabilità della contraddizione che, da queste parti, esplode immediatamente nel tema dell’identità. Il percorso nella “venetità” passa qui attraverso un coraggioso uso dei dialetti e la ricerca di una lingua materica ben lontana dallo slang omologato che si sente in teatro o in tv, un affondo altrettanto interessante nella ferocia concreta della piccola imprenditoria di provincia, dei suoi vizi e dei suoi crimini, delle sue mollezze micidiali, così vicine a quelle che si trovano di questi tempi sui mezzi di informazione di tutta Italia. La rielaborazione di questo testo è capace di fare di un industrialotto in fallimento l’incarnazione locale di Scarface, assumendosi la responsabilità della tematica e riuscendo dunque a proporsi come un lavoro che ha il coraggio di puntare seriamente il dito al cuore del tema dell’identità e di girarlo e di rigirarlo sapientemente nella piaga.
Roberta Ferraresi