La constatazione dalla quale prende inizio l’intera riflessione proposta dal critico Renato Palazzi per Linus è sicuramente lapalissiana, ma non per questo scontata: da ben due lustri, ormai, quel secolo complesso che è stato il ‘900 si è concluso. Cento anni di grandi rivoluzioni, cambiamenti, crisi economiche, globalizzazione e genocidi, minacce e tragiche follie nucleari. Un secolo di emancipazioni e nuove schiavitù, di viaggi sempre più veloci, migrazioni, scoperte e sperimentazioni che hanno segnato non solo la scienza, la tecnologia e le comunicazioni, ma anche l’arte, la musica, il teatro. Ma, appunto, da ormai dieci anni siamo scivolati nel 2000: non solo un nuovo secolo, ma addirittura un nuovo millennio. Dieci anni che bastano, forse, a prendere la giusta distanza dal periodo precedente per poter dare, approfittando della via indicata da Palazzi, alcune definizioni di “novecentesco”, e con esse iniziare a delineare le tendenze odierne e future. Vedendo, però, nella categorizzazione chiusa una forma assolutamente “novecentesca” di strutturazione del pensiero, si procederà più liberamente e senza sentenze definitive. Non potendo, in questa sede, elaborare una sintesi esaustiva di un argomento così ampio, si prediligerà, anzi, della riflessione suggerita dall’illustre critico, l’aspetto più ludico – che è forse quello di cui si sente più il bisogno in questo nuovo millennio iniziato non certo nel migliore dei modi – limitando il discorso al mondo teatrale.
Innanzitutto una riflessione cromatica: il total black o white è una convenzione – lungi dall’essere neutra –, e come tale non può non appartenere al secolo scorso. Dolcevita nere, piedi scalzi e pantaloni da tuta sono un residuato d’altri tempi che non sembrano smettere, però, di esercitare il loro fascino. D’altro canto anche la nudità – lungi ormai dall’essere una provocatoria novità – può rischiare di divenire desueta se usata a sproposito.
Si è decisamente perso il concetto di “costume” in senso, appunto, novecentesco, con la proliferazione, in scena, di felpe, jeans, t-shirt con enormi stampe e tutto quello che si può – a prima vista – facilmente reperire in un mercatino. Simile discorso si può fare per la scenografia: eliminati i grandi impianti scenici tipici del secolo scorso (e qui la parentesi è d’obbligo, essendo inevitabile chiedersi quanto le ristrettezze economiche abbiano influito su questa tendenza, in una sorta di “far di necessità virtù”), i teatri si sono messi anch’essi a nudo, dimostrando, grazie alla visionarietà di grandi artisti, di non aver bisogno d’altro che della fantasia del pubblico. Un nome per tutti, quello di Peter Brook, viene subito in mente: difficile definire il suo operato prettamente novecentesco. E se è appurato che l’epoca della grande regia sia ormai in declino, con il proliferare di nuove formule creative che fanno del collettivo e della non (totale) distinzione dei ruoli il loro punto di partenza e di forza, va anche riconosciuto il lavoro di quei grandi registi che, noncuranti dei necrologi che quotidianamente vengono dedicati alla loro professione, sfuggono a qualsiasi classificazione secolare, avendo segnato la storia del teatro anche per molti anni a venire.
La regia collettiva – congiuntamente alle nuove esigenze produttive che hanno fatto della residenza un proficuo punto fermo – ha cambiato anche il modo di presentare l’esito del proprio lavoro al pubblico, andando prima di tutto a mettere in discussione il concetto stesso di esito. Gli ultimi anni, infatti, sono stati contraddistinti da un proliferare di prove aperte, studi, presentazioni che hanno fatto dello spettacolo concluso un obiettivo non obbligatorio da raggiungere e sicuramente lontano, di cui si palesano le tappe ed il lungo processo creativo. Il risultato è una programmazione “seriale”, che si ritrova anche nella scelta di molti gruppi di dedicare diversi spettacoli allo stesso tema, sviscerandone tutti gli aspetti e proponendo una riflessione a puntate. Un’applicazione, nel duemila, al teatro di quella serialità che, per tutto il ‘900, ha fidelizzato e fatto crescere prima gli ascoltatori radiofonici e, in seguito, quelli televisivi, con format ormai storici come le telenovelas. E il pubblico sembra apprezzare molto questo sue essere partecipe del processo, dimostrando di sapersi affezionare a gruppi e a loro lavori seguendoli per tutto lo stivale. Complici anche i nuovi mezzi comunicativi, che hanno sdoganato la promozione teatrale dai muri delle città e dai trafiletti dei giornali trovando nel web spazi e strumenti ben più agevoli, questa nuova generazione non sembra affatto soffrire della carenza di pubblico. Numerosi spettatori affollano i luoghi nei quali circuita il teatro del duemila – dai teatri di periferia ai festival che scandiscono l’estate italiana e non solo – dimostrandosi appassionati e curiosi, ma, forse, anche più accondiscendenti rispetto ai loro “antenati” dello scorso secolo: si ha spesso la sensazione di un diffuso eccesso di educazione del pubblico odierno, che non nega mai un applauso salvo poi esplodere in feroci critiche appena fuori dal teatro. Un pubblico, questo del duemila, eterogeneo ed entusiasta, ma un po’ timido nel manifestare le proprie sensazioni più immediate. O, forse, si prende semplicemente più tempo per riflettere, e nella società del nuovo millennio è un lusso che raramente ci si può permettere.
Magari, poi, la riflessione risulta vana, di fronte a lavori talvolta di pura estetica e profondamente concettuali, sintomatici di un teatro del nuovo millennio che sta ancora cercando il suo statuto, la sua ragione d’essere. Perché, se la grande rivoluzione del teatro nel Novecento, ricorda De Marinis, è stata quella di divenire «un luogo nel quale dare voce (e, se possibile, soddisfazione) a bisogni ed esigenze cui mai fino ad allora (salvo isolate eccezioni) si era cercato di rispondere mediante gli strumenti del teatro: istanze etiche, pedagogiche, politiche, conoscitive, spirituali», conclusosi il secolo delle grandi ideologie la ricerca è ancora aperta. La sfida è di trovare, quindi, non solo nuovi linguaggi, ma sopratutto nuovi stati di necessità per un teatro vivo, sincero ed attuale.
Silvia Gatto