La particolare prossimità fra artisti e pubblico, con il suo arrischiarsi all’esposizione di lavori ancora in progress, fa del festival B.Motion un luogo di incontro raro: in una settimana di rassegna, dal 30 agosto al 4 settembre – quasi tutti presenti con frammenti di creazioni ancora da completare, chi nelle fasi conclusive, chi ancora all’innesco – si sono avvicendati sui palcoscenici (e non solo) della città i percorsi più noti della ricerca performativa italiana emergente. Di qui, la preziosità dell’esperienza, che diventa l’occasione per una riflessione di ampio respiro sullo status della teatralità contemporanea.
Tante volte si sente dire, e si legge spesso, che i tratti caratterizzanti di questo nuovo teatro si trovino nella durata degli spettacoli (sempre al di sotto dell’ora, spesso attorno alla mezz’ora), nei formati scelti (la rateizzazione in studi successivi), nella composizione minimal degli ensemble (dimensione di coppia o al massimo in trio). Elementi sicuramente evidenti, continuativi, denotativi.
Non scrivo mai in prima persona: mi dispiacerebbe se questo teatro, che in parte è il mio teatro (quello che amo, che seguo e con cui mi confronto ogni giorno, che mi delude, mi confonde, mi entusiasma, mi apre strade e crolli, mi affonda e mi slancia in avanti), venisse etichettato, confermato e infine ricordato secondo elementi che – vanno tenuti ben a mente, ma – spesso sono puramente (compromessi) tecnici. E qui, poi, andrebbe fatto un discorso a parte, visto che innanzitutto alcuni di essi (ad esempio la presentazione in forma di studio), pur potendo essere facilmente collocati in una genealogia teatrale specifica, sono il tante volte malsano esito di un’ansia produttiva del tutto affine all’american way of life dei giorni nostri, del post-capitalismo in decadenza insomma che ci fa tutti allo stesso tempo vittime e carnefici. Se tanti gruppi condividono, con sufficiente omogeneità, così tanti dati formali, logistici, organizzativi, forse il dubbio ha da sorgere e la discussione da aprirsi: si tratta di una cifra stilistica in via di affermazione, o piuttosto responsabilità del sistema, che per molti versi, attraverso queste strategie, rischia di allontanare il pubblico e schiacciare le emergenze creative? La risposta, forse soggettiva, si trova con ogni probabilità nei programmi delle tante rassegne e di qualche teatro i cui propositi, spiriti, intenti – pur dedicando un sostegno di tutto rilievo alla giovane ricerca teatrale – si rivelano poi ben lontani dagli esiti di palcoscenico e dalla vitalità della sperimentazione, nel contesto di uno scollamento sempre maggiore fra ciò che si pre-sente e quello che invece poi è presentato. Sempre con l’esempio degli studi: tanto ci annoiano, tanto ci stimolano? È comunque una nostra responsabilità, di critici, operatori, artisti, quella di continuare a trattarli come spettacoli veri e propri (il prezzo del biglietto, assieme alla recensione, è solo l’indice più noto) e di trovare di rado formule adeguate per affrontarne l’esperienza, per permettere anche al pubblico di seguirla e all’artista di utilizzarla. Ciò non vuol dire che il dato tecnico, il compromesso faticoso, aberrante, vada svalutato o rimosso, ma si può pensarlo per quel che è: tentativo di sopravvivenza, non sempre cifra stilistica, da contestualizzare con cura secondo la sua provenienza.
Di qui e di contro si colloca questo esperimento di attraversamento dei giorni di B.Motion: un’esplorazione che prova a fare i conti con i contenuti, con il rapporto fra arte e realtà, con i tentativi di comunicazione, significazione, emozione che animano la nuova ricerca teatrale. È consueto lamentare la divaricazione vertiginosa fra scena e platea, ed ecco che allora il critico – anche rifuggendo la nota tecnica, il dato logistico, la pressione organizzativa – può andare a rintracciare i nodi (voluti, capitati) di quelle reti che legano teatro e vita, sperimentarne le collocazioni, avanzare ipotesi sulle reazioni, sulle contaminazioni e, certo, sui tentativi di resistenza.
Ecco solo due o tre spunti, evidenze si potrebbe dire, da poi riunire in traiettorie di riflessione più organiche.
Su quattordici spettacoli visti, dodici non possedevano un’ambientazione precisa, in senso spazio-temporale; le eccezioni, stranamente affini, sono Semiramis di Menoventi e .h.g. di Trickster, in cui lo spazio possiede una precisa intenzione drammaturgica e si può considerare lacanianamente la mente del creatore e/o dello spettatore, se si vuole azzardare un’ipotesi. Gli altri lavori sono impegnati nella riconfigurazione di uno spazio-tempo ad hoc: ambienti asettici, con la prevalenza del monocromo o comunque di un uso cautissimo del colore e la scenografia talmente rimpicciolita da diventare quasi solo attrezzeria, sono percorsi da azioni i cui riferimenti temporali aderiscono alla durata della performance. Ogni opera sembra intenta a delineare la propria area performativa – da chi fa delle pratiche legate al framing una dichiarata cifra poetica (con gli schermi di Anagoor, il recinto-laser di Plumes dans la tête, la continua ridefinizione live dello spazio di CollettivO CineticO) a chi ne sperimenta l’attuazione in senso più ampio (da possibilità di espansione, con la l’invasione di sala in Bestiale improvviso, ad altre di riduzione e concentrazione, come la pedana incastonata a fior di scena di Pathosformel) – come a tentare una propria specificazione del “palcoscenico” capace di rivendicare l’individualità domestica di uno spazio abitato sempre, in cui lo spettatore si sta affacciando solo per qualche istante.
Al di là della costituzione di uno spazio-tempo teatrale ad hoc, un altro elemento che sembra caratterizzante e diffuso in senso drammaturgico: la concentrazione sull’esperienza del mascheramento e dello smascheramento. La scena della giovane teatralità – e anche a B.Motion se ne trovano diversi esempi – abbonda di performer in indumenti intimi, di strip-tease asettici e rituali di vestizione, di percorsi di negazione o di esaltazione dei tratti umani. Si (tra)vestono in scena Silvia Gribaudi e i danzatori di CollettivO CineticO, si spogliano (e rivestono e rispogliano) i performer di Anagoor (in Fortuny e Tempesta) e l’Insorta distesa di Plumes dans la tête; nega il volto Sonia Brunelli in Barok, mentre le danzatrici di Bestiale improvviso sono sospese in un teromorfismo inquietante e i performer di Pathosformel cedono il centro della scena a dei manichini a grandezza naturale.
Di fondo, spesso, un tessuto sonoro lattiginoso, quasi sempre di costruzione elettronica (più o meno creativa: dal sampling con rielaborazione live al remix di pezzi non originali), che assorbe anche le potenzialità della phoné sperimentata dai lavori che esplorano l’incarnazione del testo.
Due o tre appunti, la cui emergenza è nota ma il cui accostamento è del tutto parziale, stanno per collassare in una traiettoria ancora più parziale: si diceva, appunto, che di questi tempi è importante schierarsi, prendersi la responsabilità di mettere insieme i pezzi, di tessere legami, di accogliere l’incontro all’interno della propria identità.
Una ridefinizione ad hoc dello spazio-tempo della performance, con tutti i ritualismi di cui è impregnata, si può leggere in reazione al dilagare dei non-luoghi contemporanei anche nell’intimità, oltre che nei contesti pubblici. In questo, la profezia dal retrogusto apocalittico di Marc Augé forse era fin troppo intimista: non è nelle sale d’attesa o nei centri commerciali o negli imperativi dei bancomat che oggi il soggetto è annullato (in senso identitario, storico, relazionale) – questi sono spazi in cui, a maggior ragione, l’individuo si afferma con forza, nell’esperienza della scelta – ma è proprio a casa propria che si innesca l’omologazione, fra il tavolino ikea e il souvenir orientale, il proprio profilo facebook e l’ultima puntata di Scrubs. Il teatro vede, osserva, studia, esplora. E, certo, in un modo o nell’altro risponde, crollata la dicotomia fra rappresentazione e presentazione, fuori da ogni utopia, per un intervento concreto nella realtà della scena, che è quella di cui si è partecipi durante uno spettacolo. Anche con tentativi di riafferrare uno spazio-tempo specifico, decisamente dedicato, finalmente abitabile dall’azione del performer e dallo sguardo dello spettatore e costruito con cura, per accogliere al meglio questo incontro, che nella realtà quotidiana è spesso negato, declinato, rimandato.
E l’accento, come si è visto diffusissimo, sulle pratiche di mascheramento e smascheramento si può azzardare, brechtianamente, sia legato ad una costruzione live del personaggio, che viene così sbozzato di fronte allo spettatore negli interstizi fra le sovra-strutture che gli sono proprie. L’attore di questa nuova scena è dichiaratamente un costrutto collettivo, proponendosi come segnale di una profonda interrogazione sull’essere-in-scena e sull’essere-in-vita, e rimandando al pubblico le medesime domande sulla recitazione, ma anche sull’interrelazione e sull’identità.
Esiste un teatro che, immerso nella decadenza del potere biopolitico – in cui l’individuo è minacciato (come artista, come uomo) dal continuo venir meno della responsabilità individuale, mutato in spettatore silente di linee di governance sempre più indecenti – tenta di dire la sua, di reagirvi, di rifare della scena un luogo di incontro, di pensiero e, perché no, di resistenza. Certo lo fa con i suoi strumenti, quelli dell’estetica, della composizione, dell’azione. Forse ad innesco di possibili percorsi di riappropriazione della vita (culturale, sociale, politica), offrendo spunti e suggestioni spesso di un certo spessore, che poi sta anche ad altri – a chi guarda, a chi segue – condurre nella quotidianità, in linea con quello che essi sono: arte, quindi sempre più che arte – vita.
C’è chi parla di astrazione e di smania concettuale, di intimismi e di autoreferenzialità del nuovo teatro, ma essa ha origine e fine nella realtà in cui si sperimenta, e spesso le rivendica con una forza spiazzante – questo, un originale rapporto con la realtà che precede e segue la scena, è forse il contesto in cui ricondurre quel magnetismo difficile da spiegare, che si presenta per intuizioni, di cui sono impregnati tante esperienze del teatro emergente, dalle coreografie di Barokthegreat e Santasangre ai cori forsennati di Babilonia Teatri, dall’affezione di Pathosformel alle composizioni di Anagoor e Plumes dans la tête.
Roberta Ferraresi