Partendo dalla cultura greca, ossia quella che ha fondato la teatralità occidentale, Roberto Tessari segnala come la relazione fra scena e società sia sempre risultata fondante: è Plutarco il caso esemplare citato dallo studioso, che, nei panni di Solone (personaggio a cui Plutarco affidava la prospettiva dell’uomo politico, del legislatore), racconta la nascita del teatro e, attraverso i temi legati alla finzione, si concentra sulle possibilità del debordamento del fatto teatrale nella vita quotidiana, nella politica, nella società. In questo passaggio – che, alla base della cultura teatrale occidentale, segna il passaggio dal rito ad una realtà estetica – emerge con evidenza tutta la problematicità dei rapporti fra teatro e società e delle loro reciproche contaminazioni, dal teatro dei gesuiti alle radici del Marat/Sade all’animazione teatrale, dagli studi di Mircea Eliade sullo sciamanesimo a Grotowski, Piscator e Kantor. Il teatro implica, dunque, da sempre, enormi potenzialità di trasformazione dell’individuo (che lo agisce e che lo vede): è un’idea contenuta nella catarsi aristotelica, ma anche in tutte quelle pratiche non teatrali che hanno considerato indispensabili le tecniche attoriali. Prezioso eppure pericolosissimo, emarginato dalla politica ma sempre utilizzato, il teatro è uno spazio o un momento in cui la finzione può intervenire considerevolmente sulle persone che vi partecipano. In questo contesto Tessari porta l’attenzione su una forma di teatro politico, fino a poco tempo fa accusata di eccessivo formalismo, capace di concentrarsi sulle forme di comunicazione fra scena e platea e di coniugare così i contenuti ad una ricerca estetica, che forse oggi sarebbe utile, se non doveroso, riprendersi in carico: non un teatro vicino a quella “mitologia dello straniamento” tutta italiana che ha importato Brecht nel nostro Paese, ma un teatro “che renda di nuovo strano ciò che è concreto”, nella prospettiva di un rinnovamento e di un nuovo consolidamento dei rapporti fra teatro e società.
Gerardo Guccini indaga, in una prospettiva di intreccio e comparazione, continuità e divergenze fra la scrittura teatrale italiana e quelle europee. Ma quello che lo studioso stesso definisce un “luogo” (piuttosto che un contributo o una lezione) dove si confronteranno i diversi caratteri della drammaturgia contemporanea, necessita di una premessa ad hoc per il caso italiano: a differenza degli altri Paesi europei in cui il ’68 dura al massimo un anno (e infatti se ne parla in termini di mesi o di stagioni), in Italia esso si prolunga per un decennio intero, dando luogo a quella “tradizione dell’innovazione”, come la chiamava Leo de Berardinis, che dilata le esperienze della sperimentazione dell’utopia e permette un radicamento (anche e innanzitutto materiale) nel nostro Paese di quelle esperienze teatrali della neoavanguardia– Grotowski, il Living e Barba – che nel resto d’Europa hanno vissuto, appunto, soltanto una stagione e che invece qui hanno trovato un luogo di rifugio e di continuità per le loro ricerche. In questo contesto del tutto peculiare si colloca la drammaturgia italiana contemporanea, perciò difficilmente avvicinabile, pur nei punti di prossimità alle coeve esperienze europee: la scrittura per il teatro, ad esempio, consiste più in una “drammaturgia dei corpi”, come la definì Annibale Ruccello, che in un vero e proprio ritorno al testo in senso convenzionale. A fianco a tale particolarità si collocano anche evidenti punti di avvicinamento, come la centralità dell’elemento relazionale (che non trova nella messinscena solo un momento di verifica, ma, anzi, l’innesco del proprio farsi parola) e il problema delle origini (che in Italia si riscontra nel diffuso uso dei dialetti), così come nella recente attenzione per il teatro di narrazione.
A Maria Teresa De Gregorio il compito di un affondo specifico sul caso della lingua veneta in teatro: in un vario e denso panorama di esperienze che spazia dalla nascita di tale lingua, con Ruzante e Goldoni, fino alle sue sperimentazioni novecentesche e contemporanee, la De Gregorio compone un’agile mappatura del passato e del presente della lingua teatrale veneta, fra scena e platea, anche aprendo confronti, sul frangente del contemporaneo, con altre esperienze eccellenti del teatro italiano, come il caso di Emma Dante e il nuovo teatro napoletano. La studiosa, nei suoi efficaci attraversamenti, si sofferma un momento in più su quel caso esemplare di teatro a Nordest che è Babilonia Teatri, ormai celebrato ensemble a livello nazionale, capace di coniugare italiano e veneto, rinnovando in modo del tutto originale le potenzialità di una lingua, il nostro dialetto, sempre teatrale per eccellenza.
I preziosissimi interventi si incontrano, oltre che nelle loro esposizioni, alla fine della mattinata, in un momento dedicato al dibattito e al confronto: Guccini riflette sul teatro di narrazione, notando come al principio di rappresentazione, da sempre legato al teatro, si sia andato sostituendo un principio di “nominazione”, per cui questo linguaggio è capace di creare un’omogeneità di luogo che pone scena e platea come parte di una stessa realtà. Tessari evidenzia come la funzione del teatro di narrazione non sia, dunque, quella di trasformare la realtà, rappresentandola, come avveniva nella scena tradizionale (sostituendo un altro reale al reale), ma che si tratti piuttosto di presentazione e, dunque, di svelamento: un teatro “che ti rende partecipe dell’atto teatrale, ti mette in crisi, ti modifica” – andando appunto a provocare quella crisi, nello spettatore, attraverso cui è possibile rispondere alle altre crisi del teatro e della società, citate dal titolo della rassegna.
Roberta Ferraresi