Il corpo e la voce sono alcune delle coordinate entro cui si possono inserire gli attraversamenti che Antonin Artaud ha messo in opera nei confronti dei diversi ambiti espressivi: critica e poesia, cinema e teatro, disegno… Spazio in cui più di altri si realizza l’unione corpo-voce, è la radio – altro linguaggio esplorato dall’artista, anzi probabilmente territorio della sua ultima creazione – ad accogliere in questo caso il lavoro di Artaud, nella serata che Radio3 Suite gli ha dedicato il 23 novembre: «il teatro di Artaud non va interpretato, va ascoltato – segna lo studioso Ferruccio Marotti nel suo intervento – in quanto rappresenta il momento in cui la poesia si incarna». Così, in un’ora e mezza di trasmissione curata da Antonio Audino si sono intrecciati, in un formato davvero efficace, interventi di critici e studiosi con frammenti legati all’opera e alla vita dell’artista, interpretati da Elena Bucci, Roberto Latini e Sandro Lombardi. Dentro e fuori dal teatro e dalla vita.
E forse è bene partire proprio da qui, per tentare di afferrare il valore che il lavoro (opere, teorie, vita) di Artaud continua a confermare presso il teatro presente: se in Italia viene scoperto proprio in coincidenza dello scoppio delle neoavanguardie come il Living – è Marotti a ricordare tale dominante “desiderio dell’utopia” – è una figura oggetto di una persistenza tutta speciale, che ritorna con forza anche nei percorsi di creazione contemporanei. Non è un caso se a interpretarne gli scritti, nella serata radiofonica, si trovino questi 3 artisti che, come altri e più di altri, hanno fatto dell’indagine intorno a un teatro poetico e della ricerca sul corpo-voce una scommessa etica ed estetica di tutta una vita. Impossibile non pensare al teatro della crudeltà, a idee come “poesia dello spazio” o alla metafora di contagio con la peste, affrontando il teatro di Latini, soprattutto nei suoi esiti più recenti; idem per il lavoro di Sandro Lombardi, dalla potenza del teatro-immagine degli esordi con il Carrozzone-Magazzini (Criminali) fino alla successiva apertura poetica: è lo stesso interprete a rivelare, in chiusura di trasmissione, che Il teatro e il suo doppio è il primo libro teatrale che ha letto, e anzi come questo abbia contribuito per lui proprio alla scoperta del teatro stesso. Il corpo-voce che gli interpreti prestano alle parole di Artaud e a quelle legate alla sua vita si impastano in un risultato di grande potenza. Così, ecco prendere forma frammenti di suoi testi, tutti fra i più tardi, su cui spicca Pour en finir avec le jugement de Dieu; ma anche testimonianze di persone che ne hanno frequentato l’opera, dai ricordi di Barrault e Dullin alle lettere di Paule Thévenin, dagli appunti di Breton alle recensioni dei cronisti dell’epoca. L’incarnazione si colloca all’interno dell’ampia tessitura vocale dei tre interpreti che hanno saputo rendere nuovamente presente, fino alla vertigine, la potenza del corpo-voce dell’artista, complici le creazioni sonore di Gianluca Misiti che hanno chiamato in causa anche la voce, quando non addirittura il corpo, di Artaud. “Teatri-in-forma-di-libro” ebbe a chiamarli Ferdinando Taviani, in una magistrale intuizione capace di superare e far collassare l’antica opposizione fra teatro di parola e teatro immagine. Per qualche ora rivivono qui, letti ad alta voce e non con il pensiero, come dovrebbero essere, i tanti teatri che è stato Antonin Artaud.
L’occasione, lo dicevamo qualche giorno fa, è ghiotta (leggi la presentazione di Antonin Artaud. Variazioni italiane): la recente pubblicazione degli ultimi inediti dell’artista, a cura di Èvelyne Grossman per Gallimard. Lorraine Dumenil, studiosa molto vicina alla curatrice, presenta l’eccezionalità dell’edizione dei “quaderni” d’Ivry: non solo un’ulteriore opportunità di confronto con l’opera artaudiana, ma soprattutto una linea editoriale che ne rispetta profondamente la natura, proponendo in volume copie fac-simile del poderoso intreccio fra testo e disegno che caratterizza gli originali. Con le sue parole, sul versante teatrale, vi sono l’introduzione di Antonella Ottai (co-ideatrice del progetto assieme a Paola Quarenghi) e la preziosa testimonianza di Marotti, nonché il contributo della studiosa Maia Giacobbe Borelli che si addentra nelle glossolalie artaudiane, offrendone una visione estremamente concreta e contestuale: Artaud era poliglotta, fin da piccolo aveva sentito e parlato più lingue, e in coincidenza di quella “rinascita” che, dopo Rodez, lo riconduce all’arte, nel ’46 azzera tutto ripartendo da capo. Anche per la lingua, la cui origine va a cercare nella dimensione sonora (più che in quella della comprensibilità semantica). Qui si formano proprio quei quaderni neo-pubblicati, in quel “secondo teatro della crudeltà”, sviluppato al di fuori di qualsiasi ambito o politica rappresentativa, teatro o cinema o quale che sia. Ha esplorato le diverse arti in profondità, Antonin Artaud, segnandone in ogni caso un punto di non ritorno cruciale. E da ognuna si è allontanato insoddisfatto – tanto che Enrico Magrelli, critico cinematografico, parla di “rapporto mancato” (con il cinema naturalmente, ma la definizione si potrebbe applicare ad ampio raggio).
Antonio Audino, nell’aprire la trasmissione che ha condotto con grande cura e curiosità, segna l’unico punto davvero fermo, o uno dei pochi, nell’avvicinare l’opera di un autore che ha attraversato e influenzato tanti territori: la dimensione profetica, evocata dalla serata di Radio3, tanto nelle linee tracciate dagli interventi, nelle loro giustapposizioni e coincidenze, così come nell’interpretazione di Bucci, Latini e Lombardi. Quello che Artaud cercava e augurava all’arte, quella puntigliosa insoddisfazione che trabocca dai suoi scritti, è stata valida nel Novecento teatrale così com’è calzante al giorno d’oggi. E, senza dubbio alcuno, si potrà presentire domani, sempre qualche passo avanti rispetto a quel che accade, nelle vibrazioni di una voce destinata a scuotere profondamente i canoni del fare artistico, nel nome di una necessità che mai come oggi diventa irrinunciabile.
Roberta Ferraresi