Un Festival, si sa, è fatto di corse e intensità: le compagnie arrivano, fanno spettacolo, si fermano qualche ora e poi ripartono verso nuovi palcoscenici. Ogni sera si possono vedere 2 o anche 3 lavori diversi, che sta alla sapienza dell’organizzazione poter accostare per senso o per linguaggio. L’effetto, nel bene dell’entusiasmo e nel male della frenesia, è quello di uno spaccato poliedrico e vivissimo della performatività contemporanea, giovane o vecchia, italiana o internazionale che sia. Uno dei punti di forza che vanno rilevati al programma di fAST, nuovo nome del Festival di Terni giunto alla sesta edizione, è quello di aver voluto intessere la propria rassegna di percorsi di più lunga durata, capaci di fare da collante e di mettere in relazione i diversi appuntamenti spettacolari, andando anche a segnare i profili dell’identità del Festival.
Il lavoro in collaborazione con la Quadriennale di Praga (Intersection), che ha occupato in una grande installazione d’ambiente il piazzale antistante la struttura che ospita il Festival; il progetto Umbria Creativa, che, fra mappatura e scouting, intende andare a scoprire e a sostenere la giovane creatività regionale; una particolare attenzione alla performatività emergente che si esprime, oltre che con Umbria Creativa, anche nell’ospitalità di due progetti-chiave del settore: il Premio Scenario e la rete Anticorpi.
In questo contesto, anche Miniatures, progetto internazionale che intende favorire il dialogo fra gli artisti dei Paesi del bacino mediterraneo. E nella Sala Carroponte – suggestivo spazio a 2 piani che ancora porta i segni della sua identità precedente – di CAOS tale rapporto si è concretizzato in un intreccio di spaccati performativi di pochi minuti, capaci di aprire uno squarcio sulle differenti tradizioni e innovazioni dei diversi Paesi. C’è stata la surreale performance della marocchina Meryem Jazouli, donna-colonna in rosso, quasi-statua che si anima raccontando la storia di un avvitamento irresistibile (quello de L’Aaroussa, “matrimonio” in lingua araba); poi gli italiani gruppo nanou, con un frammento dalla loro ultima creazione, Sport, e l’itinerario ermetico fra spirali di parole a pavimento e altre fatte a pezzi dalla libanese Danya Hammoud (S’approcher…); poi video-installazioni, animazioni, attraversamenti della natura più varia fra tutti i colori del Mediterraneo (rosso e nero, dorato e bruno), in una sequenza serrata che rivela le tendenze di alcune delle avanguardie della ricerca performativa, nonostante qualche ingenuità drammaturgica e alcuni ermetismi. Alla fine, sul canto della tunisina Alia Sellami, il pubblico è costretto a riattraversare lo spazio, osservando così in modo nuovo i frammenti residuali lasciati dalle performance precedenti: un’immagine efficace della varietà dei lavori presentati all’interno del progetto Miniatures che hanno abitato insieme il luogo messo a disposizione dal Festival, insegnando allo spazio stesso nuove traiettorie e possibilità di esistenza.
Consolidamento della vocazione internazionale e intenzioni di radicamento ulteriore, collaborazioni con progetti di ampio respiro anche socio-culturale e attenzione per la giovane creatività, dialogo e incontro – queste sono alcune delle chiavi di lettura emerse nel primo fine settimana di fAST.
E fra questi nuclei che irradiano l’atmosfera e rilanciano la persistenza dell’identità del Festival, anche il lavoro di Volker Gerling, artista berlinese che sì ha avuto un momento spettacolare (si fa per dire) tradizionale il 18 settembre, ma che, durante i giorni di Festival, ha continuato ad attraversarne gli spazi portando le proprie modalità creative ed espressive in giro per la rassegna. Gerling da molti anni si occupa di “flip-book”, ovvero costruisce, nei suoi viaggi, dei “libri in movimento” a partire dalle immagini che scatta alle persone e ai luoghi che incontra. Lontano da qualsiasi vocazione al “congelamento” che molti abbinano ai processi fotografici, il lavoro di Gerling si concentra invece sul far rivivere le immagini: attraverso la composizione in sequenza di scatti molto ravvicinati fra loro (12 secondi), ridona atmosfera, gusto e vita a persone e luoghi “catturati” dal fermo-immagine. La “vendita” di questo lavoro assume toni e contorni decisamente performativi: non avendo intenzione di cedere le “proprie” persone in cambio di denaro, Gerling sfoglia davanti allo spettatore i propri album, includendo in una dimensione teatrale la fruizione del proprio lavoro, originariamente afferente all’arte visiva e alle sue tradizionali modalità di visione. Portrait in motion – questo il titolo dell’incontro-spettacolo – più che un esperimento performativo diventa un viaggio nella biografia (artistica e non) di Gerling, fra le persone che ha incontrato e le storie che si portano dietro, i luoghi che ha attraversato e l’essenza intima della prospettiva del viaggiatore. Fra i flip-books ci sono ragazzi a pesca e un vecchio dagli occhi strazianti, una tipica famiglia tedesca e dei bambini, palazzi lontani e alberi sotto la finestra di casa: tutti soggetti che, nel giro di qualche scatto, sembrano rivelare un momento autentico della propria identità. Il tempo diventa flessibile nelle sequenze mostrate, mentre i racconti fanno da contrappunto allo scorrere delle immagini proiettate a fondo scena. L’elemento più interessante di questa esperienza, più delle curiosità anedottiche e degli affondi tecnici, si inscrive forse in quel piccolo, piccolissimo vuoto che persiste fra un’immagine e l’altra: a differenza di un comune video, la narrazione visiva di Gerling è intervallata da quei momenti “bui” che la macchina fotografica non è riuscita ad afferrare – così come il suo racconto a parole lascia intuire l’esistenza di particolari e dettagli non svelati. Qui, forse, sta buona parte del fascino dell’operazione, un mistero sull’umanità che continuamente si svela, si rivela, per poi ritrarsi di nuovo nel proprio segreto.
Ancora, con Gerling si ritorna allo spirito che ha animato le Miniatures: costruzione di ambienti dedicati al dialogo e all’incontro, riscrittura dei canoni e dei limiti della creazione performativa contemporanea, vocazione all’internazionalità ma rivista alla luce del radicamento delle relazioni umane, con progetti di ampio respiro (anche) socio-culturale – tutte linee forti dell’edizione 2011 del Festival di Terni che, oltre a confermare alcune dimensioni su cui la rassegna investe da tempo, si spera possano rappresentare nuovamente orientamenti alla base delle sue intenzioni future.
Roberta Ferraresi