Si può cogliere una suggestione lanciata da MK con Quattro danze coloniali viste da vicino – quella sulla coincidenza, all’interno del corpo scenico fra la forza dell’attualità (qui, ora) e l’imminenza della previsionalità (dopo, altrove) – per introdurre i diversi lavori coreografici presentati al Festival Inequilibrio 2011 alla prima edizione di Andrea Nanni, in cui, è evidente, la danza la fa davvero da padrona. Non (o non solo) in senso quantitativo – quasi tutti debutti e coproduzioni – ma soprattutto per l’alto livello tecnico e la forza spettacolare di molti dei pezzi in programma: solo nel secondo e ultimo fine settimana si potevano vedere, uno dopo l’altro, un episodio di grande rilievo dell’Accademia sull’arte del gesto di Virgilio Sieni (Cinque nonne), l’ultima suggestiva creazione di Maria Donata D’Urso nata dall’incontro fra corpo e tecnologia, un ulteriore passaggio di C/o, ricerca decennale sulle eterotopie di Collettivo Cinetico (|x|. No, non distruggeremo il negozio...) e il debutto dell’ultima parte del progetto Motel del gruppo nanou, al Festival con la trilogia per la prima volta nella sua interezza.
Ognuno degli spettacoli è forte di una specificità manifesta, irriducibile, dichiarata dal radicamento e dalla maturità che alcuni di questi percorsi hanno conquistato negli ultimi anni; eppure, allo stesso tempo, si è trattato nella maggior parte dei casi di declinazioni, slittamenti, lievi mutazioni quando non addirittura di svolte – formali o poetiche – di cui non è possibile ora come ora stabilire le sorti future, ma che, oltre ad accennarvi, rappresentano ad ogni modo istanze capaci di illuminare e definire più nettamente alcuni degli slanci estetici e politici con cui questi artisti hanno popolato le scene di recente. C’è l’impressione di aver attraversato, in diverse situazioni, un nodo concreto del processo creativo, originato dall’incontro fra l’indagine degli artisti e il momento spettacolare portato a Castiglioncello, una dimensione fascinosamente germinale che mette in contatto la loro biografia coreografica e gli orientamenti, nuovi o consolidati, che stanno accarezzando di questi tempi. È il caso indubbiamente del lavoro di Sieni, che si è aperto di recente a un’indagine in area mediterranea: le sue cinque (sei) performer sono protagoniste di un’inedita interferenza fra realismo e disegno rappresentativo che lascia emergere un segno interessante per il progetto dell’Accademia. I suoi precedenti esiti di impostazione simile – come quello di Drodesera 2010 – andavano ad incontrare persone del luogo per realizzare interventi site-specific che sottolineavano con particolare cura l’identità dei singoli performer e il contesto in cui agivano (vivevano); biografia e messinscena in molti punti erano portate così a coincidere e a prendere slancio l’una dall’altra, in un dispositivo in cui la realtà si faceva spettacolo. In Cinque nonne, invece, l’individualità autentica delle protagoniste è celata in una composizione coreografica che ne avvicina le singole presenze: estratte dal proprio contesto abituale per immergersi nel giardino di una di loro, danno vita a momenti che si rincorrono fra un pezzo e l’altro, ritornelli gestuali ed espressivi elaborati intorno ad una partitura comune. Una sola, la padrona di casa con cui si inaugura la performance, agisce fra oggetti, memorie e ambienti che le appartengono, impegnata in gesti estremamente concreti (accendere la luce, prendere un frutto); le altre diventano figure volatili, senza storia né nome, ognuna sotto un nespolo o un fico che sia, con una piccola luce a disposizione. Certo si mantiene il gusto per la gestualità minima e quotidiana che fa di questo percorso una grande indagine antropologica (così come la potente sapienza dei corpi e l’estrema cura per il dettaglio), ma l’identità reale si sfarina in astrazioni di rara bellezza. Lo stesso si può dire di Francesca Pennini, che impone con questa performance una vocazione di azione urbana decisamente interessante, seppur non riuscitissima, capace di indicare nuovi sviluppi possibili per la sua ricerca fra corpo e spazio.
La dimensione di coincidenza di già stato e potenziale è una rete capace di inquadrare molte delle creazioni in programma, in cui il vuoto che avvolge i corpi (permea gli ambienti, separa e unisce spettatori e danzatori) si colma, seppure attraverso strategie diverse, dei movimenti a venire. Tali tipologie di proiezione sono protagoniste del già citato Cinque nonne di Sieni – in cui il rapporto con il pubblico è davvero materialissimo, percepibile – e ovviamente in MK, che si interroga dichiaratamente su questa dimensione della distanza (e sulla sua inconsistenza), ma è una prospettiva decisiva anche in Anticamera di nanou: chiusa dentro un cubo una donna dall’ispirazione antigravitazionale, assume tutte le sedute possibili, sfiorando acrobazie del movimento e della visione. In tutta la trilogia di Motel, che qui si chiude con l’ultimo episodio, la concentrazione è netta sull’attività previsionale del pubblico (e sul suo continuo solleticamento, finanche tradimento). Ci sono poi lavori che sottolineano la questione con un cospicuo apporto tecnologico; si dividono fra gli estremi dell’autonomia dell’opera, che trova un vertice estetico e tecnico in Strata di Maria Donata D’Urso, e l’interazione, che invece è al centro della performance di Collettivo Cinetico. Tutti e due affrontano tale relazione con un’ambiguità efficace, che fa del mezzo il vero protagonista dell’esperienza spettacolare, trappola e slancio per un articolato pensiero sul rapporto fra corpo in movimento e spazio. Entrambi vivono dunque di un felice rapporto con la tecnologia – il primo con raffinati e suggestivi interventi di mapping, nell’altro è proprio il pubblico a gestire lo sviluppo coreografico attraverso un apposito software – pur rischiando in certi momenti di restare intrappolati nella componente ludica della dimensione tecnologica proposta: la concentrazione vistosa su uno stesso medium rischia, a volte, di farne l‘unico protagonista dello spettacolo – non pretesto o mezzo, appunto, ma fine di una ricerca che, sul punto di schiudersi, incontra a volte dei blocchi proprio laddove aveva inteso di trovare slancio.
Altra linea di continuità da sottolineare, che Strata e |x| condividono anche con gli altri lavori (sebbene con esiti e propositi completamente differenti), è la poderosa immissione di gesti e movimenti altri all’interno della struttura coreografica: se lo spettacolo della D’Urso evoca una dimensione atletico-ginnica ai limiti della spregiudicatezza acrobatica, quello ideato e diretto da Francesca Pennini, sempre di matrice sportiva, è composto da passi minimi e azioni precise; gruppo nanou, invece, continua a far danzare l’intimità quotidiana, sviluppando, ad esempio, tutta una partitura di grande impatto sulle diverse prospettive possibili sul sedersi.
La pressione tecnologica, l’evocazione ginnica o acrobatica, l’attenzione per il quotidiano, così come quello che sembra uno spiccato gusto per l’indagine antropologica e pizzichi di sottile ironia com’era raro vedere in scena fino a qualche tempo fa – sono elementi che avvicinano questi (e molti altri) lavori di danza così differenti agli occhi degli spettatori. Li avvicinano fra loro, certo, l’uno all’altro, ma li rendono più prossimi anche a una fruizione fortunosamente non specialistica che, a giudicare anche dall’entusiasmo dei tanti bambini e ragazzi in platea (novità di Inequilibrio è la sezione a loro quotidianamente dedicata), sembra riscuotere una certa attenzione e creare una condivisione concreta, in senso immaginativo, poetico e, perché no, in certi casi anche fortemente politico.
Visto a Inequilibrio 2011, Castigliocello
Roberta Ferraresi