Alle 10 di un lunedì mattina moltissime persone si trovano davanti al Lavatoio di Santarcangelo, operatori e artisti di tutta Italia che si danno ogni due anni appuntamento per incontrare quelle che Cristina Valenti (direttrice artistica di Premio Scenario) ha giustamente definito – nel titolo del volume edito da Titivillus che ha curato – “le generazioni del nuovo”. Il Premio allora, oltre che rappresentare una grande occasione di visibilità (per gli artisti) e confronto (anche per operatori e critici), può diventare un momento per fare i conti con le tendenze che animano o andranno ad animare i palcoscenici italiani di questi anni. Basti ricordare che da qui sono passati Scena Verticale e il Teatro delle Ariette, Davide Enia ed Emma Dante, fino ai più recenti Babilonia Teatri, Pathosformel, Teatro Sotterraneo, Anagoor. Ma non è solo la Generazione Scenario, composta da vincitori e segnalati, a diventare un possibile riferimento per nuovi modi di fare e pensare teatro: in finale sono arrivati Fibre Parallele, Gli Omini, Daniele Timpano così come Marco Valerio Amico di gruppo nanou o Roberto Corradino – tutte forme e idee di performatività estremamente differenti, che hanno saputo, dopo l’esperienza del Premio, approfondire e sviluppare una poetica e una estetica originali, trovando una collocazione inedita nel panorama teatrale nazionale e, anzi, inaugurando a volte linee di ricerca di considerevole risonanza. Le finali del Premio diventano un’opportunità, insomma, anche per mettere insieme frammenti di prospettive ed esperienze che si incontrano ogni sera in teatro, così come per tracciare genealogie da verificare o smentire, per confrontarsi con quei nodi che stanno oggi ad innesco di tanti progetti di ricerca performativa.
Quindici studi di 20 minuti, selezionati fra centinaia di proposte inviate da tutta Italia, si sono contese il Premio nella “maratona” delle due giornate dell’11 e 12 luglio, nel contesto del Festival fra il Lavatoio di Santarcangelo e il Teatro Petrella di Longiano: i progetti finalisti rappresentano una enorme varietà di estetiche e linguaggi, propositi e modalità di composizione, dalla nuova danza al teatro di parola, da idee che fanno riferimento al musical e altre rivisitano le forme del cabaret. Le finali del Premio mostrano una molteplicità irriducibile, capace di rendere conto della vivacità della creazione emergente dello spettacolo dal vivo, all’interno di cui, ad ogni modo, si distinguono con forza e decisione alcune linee di indagine condivise.
Prima fra tutte è la parola: se in tempi recenti il Premio ha dato significativamente spazio a una precisa tendenza della ricercache aveva eletto la resa visiva a canale privilegiato di rapporto col pubblico, alle finali 2011 si osserva una tendenza inversa, che riporta la scrittura drammaturgica tradizionalmente intesa al centro dell’attenzione (almeno in una decina di lavori). È una verbosità poetica, fra ricerca sonora e strutturazione metrica, che apre a orizzonti di inedito lirismo vicino più al formalismo d’avanguardia che ai giochi del secondo Novecento, quella che si ritrova sul palcoscenico del Lavatoio e del Teatro Petrella: tante rime e ancor più soluzioni analogiche che guardano tanto alla poesia tradizionale quanto all’hip hop; rimandi e cacofonie emotive, che vanno spesso a costruire spaccati di impostazione intimista. L’enorme passione per la parola poetica e in genere per l’elemento testuale arriva in molti casi a saturare tutta la scena (e a volte anche la performance), debordando in litanie impressioniste vicine al borbottìo e alla glossolalia. La fisicità dell’azione è spesso dissociata dall’espressione vocale, dando vita a un curioso contrappunto fra corpo e testo che a volte apre a slanci di decisa originalità, mentre in altri casi non si dimostra sempre efficace.
Parlare del nostro Paese, oggi alle prese con le sue peggiori espressioni socio-economiche e culturali, sembra essere la necessità più diffusa, soprattutto in relazione al ruolo della religione cattolica (a cui sono diffusissimi i rimandi) e alla condizione del precariato, lavorativo e non solo, che affligge oggi giovani e meno giovani. Autobiografie di una generazione e della sua genealogia sono sostenute da scritture drammaturgiche originali che si appropriano dell’immaginario pop degli ultimi vent’anni, raccontando più a parole che con i fatti la crescita e la rassegnazione della società contemporanea: Teatri Sbagliati (Bairdo) porta in scena in un curioso musical decadentista l’altro lato dello schermo, con 4 stereotipi televisivi al femminile che provano a scappare dalla propria trappola; La Quarta Scimmia (Wonder Woman+Gesù Cristo) mostra un incontro fra una ragazza-immagine e un operaio, destinati a riconsiderare le proprie possibilità di riscatto sociale; in Raep (di Mauro Santopietro) è il confronto fra un lavoratore di ieri e uno di oggi a innescare la dialettica, anche qui senza soluzioni possibili. In questi e altri spettacoli il mondo è affrontato attraverso la prospettiva individuale – che si può vedere nel più ampio contesto dei tentativi di recupero del soggetto dopo il crollo autoriale postmoderno – e quindi si addentrano, con grande spazio per l’introspezione, nelle situazioni-chiave della condizione umana: il rapporto con la società, la dimensione di coppia, il conflitto generazionale. Al centro: il fallimento che si trasforma in icona (televisiva o fumettistica, politica, da stadio o da rotocalco) e la presa di coscienza rispetto alla propria condizione. Senza domani e nessun lieto fine. O, meglio, nessuna fine: a sorpresa (ma poi non così tanto) emerge con forza il segno di Beckett da Aspettando Godot in poi; l’inedia e l’impotenza la fanno da padrone, mentre la rivoluzione sognata resta relegata a discorso utopico che occupa più le bocche che le azioni dei personaggi in scena. Molti dei progetti finalisti danno vita ad ambienti materici che svaporano nei rimandi surrealisti, ricordando certo il teatro dell’assurdo ma anche tanta pittura coeva (su tutti la drammaturgia che si sgretola nel sogno di Carullo-Minasi, Premio Scenario per Ustica). L’incontro fra tematiche di cocente attualità (dal precariato in giù) con l’estetica para-beckettiana va a creare un insolito cortocircuito che sembra trovare una certa efficacia quando si sviluppa secondo linee comiche, ma più spesso resta intrappolato nelle sue stesse maglie, risolvendosi in panoramiche delle possibili vie di fuga da una realtà inaffrontabile.
La denuncia delle croci e delle delizie dell’Italietta televisiva, arraffona e qualunquista, omertosa e compromessa, ne ha fatta di strada dalla polemica al vetriolo con cui Babilonia Teatri ha vinto il Premio nel 2007. Anche qui, secondo una modalità compositiva ormai consolidata dalle realtà ormai affermate della ricerca emergente (come Teatro Sotterraneo, Fibre Parallele, Menoventi), si trovano consistenti immissioni di frammenti provenienti dalla realtà quotidiana, fra citazioni assolutamente pop (la musica di Festivalbar, l’immaginario variopinto dei fumetti, l’estetica della clubculture) e cortocircuiti basati su interferenze più strutturali, anche allo scopo di trovare un terreno di condivisione più forte con il proprio pubblico: sembra che i giovani artisti dei nostri giorni abbiano fatto tesoro proprio dei dispositivi istituiti dalla tv (dalle serie, dai talk-show, ma anche dai canali musicali come Mtv), certo con loop, moviole e rewind, ma anche con refrain che rimandano ai tormentoni e canzoncine o intermezzi musicali che hanno ragioni di alleggerimento e stacco. Ad ogni modo sono gli anni Novanta di musica, serie tv, cartoni animati a dominare in tutte le loro forme, celebri o dimenticate, come se si avvertisse diffusissima la necessità di fare i conti con quel decennio che ha cambiato la realtà politica contemporanea, dal crollo del Muro di Berlino in poi. Ma il “made in italy” (titolo dello spettacolo-manifesto dei Babilonia che ormai sembra potersi eleggere a categoria) di cui tanto si parla, non è qui quello dei “megafoni”, irriducibili e impersonali, a cui ci ha abituati l’ensemble veneto. L’affondo, invece, è personale e sembra declinarsi in versioni più “emotivo-intimiste”. Tornano le piccole vicende individuali a far da specchio deformante della Grande Storia; e, con esse, fa timidamente capolino sul palco qualche frammento di personaggio. Se la scena di ricerca emergente degli ultimi anni ha presentato nuove soluzioni capaci di ibridare secondo prospettive innovative l’idea di personaggio e quella di performer (spettacolo e autobiografia, scena e realtà), alle finali di Scenario si trovano pochi casi che vanno in questa direzione – sicuramente fra i vincitori/segnalati (Matteo Latino, foscarini:nardin:dagostin), così come nello studio presentato da inQuanto Teatro, progetto in cui una “gang” di cinque performer, come elementi di una session jazz, si incastona nell’idea di riportare il mondo alla “felicità” dell’età elisabettiana, fra sfilate di elettrodomestici e qualche guizzo scenico davvero intelligente. La maggior parte dei progetti, tuttavia, sembra affidarsi a un canone più consueto di persona in scena, certo esplosa, frammentata e ricucita, ma appartenente a un contesto preciso e portatrice di una storia (come di un’emotività) ben definita: i personaggi sono decisamente connotati (dall’età al lavoro, alla provenienza) e la narrazione si arricchisce spesso di dettagli concreti, estremamente radicati in una struttura drammaturgica compiuta.
Le finali del Premio Scenario 2011 prospettano un nuovo teatro dove la ricerca drammaturgica tout court torna al centro dell’attenzione, anche dando luogo ad esiti di inedito lirismo. Il pop incontra la poesia, negli studi visti a Santarcangelo e Longiano, così come l’attualità è rielaborata sul palcoscenico attraverso la creazione di mondi paralleli dal retrogusto onirico e surreale. Il predominio della parola, che deborda fino ad occupare tutta la scena, è contrappuntato da azioni minimal a fare da didascalia a micro-storie più raccontate e narrabili che agite e vivibili. L’attenzione al pop, al quotidiano, al contemporaneo di tutti i giorni – tanto nella danza quanto nella prosa – sembra rappresentare una rinnovata coscienza, da parte degli artisti, del rapporto con la realtà; ovvero sembra esprimere, allo stesso tempo, la necessità di un maggior radicamento autoriale nel mondo contemporaneo per quanto riguarda le fonti, ma anche l’esigenza di andare alla ricerca di un incontro concreto con il pubblico.
Roberta Ferraresi