“Assalto ai limiti”. Mai come quest’anno un titolo più azzeccato per la nuova edizione del festival organizzato da Triangolo Scaleno Teatro. Nove giorni di spettacoli, performance, mostre e installazioni tra il quartiere della Garbatella, l’Angelo Mai e il Teatro Palladium.
Torna per il sesto anno consecutivo Teatri di Vetro: a Roma negli spazi urbani della Garbatella si “consuma” l’arte scenica contemporanea, abbracciando il proprio territorio, ascoltando e indagando un quartiere e una città che mai come ora hanno bisogno di essere presi, investiti, conquistati. Nove giorni di spettacoli a pieno ritmo (dal 17 al 25 maggio) con due giornate dedicate alla danza, un laboratorio di organizzazione, per un festival fittissimo che si dichiara fin da subito “ai limiti”.
A partire dalla programmazione che pone il suo punto focale sull’inatteso, sul giovane e imperfetto: «se volessimo l’eccellenza, allora ragioneremmo per categorie e vedremmo in scena grandi maestri», dichiara la direttrice artistica Roberta Nicolai. Se invece volessimo guardare il teatro e nella moltitudine trovare la possibilità, allora potremmo indire un bando. È così che si è aperta, qualche mese fa, parte della programmazione di TDV e più di quattrocento artisti hanno risposto alla chiamata. È così che in scena abbiamo compagnie più o meno conosciute, emergenti; meno prosa e più danza, ma anche video-teatro, progetti sperimentali e installazioni.
Assalto ai limiti è il sottotitolo di questa edizione, mai come quest’anno prendere d’assalto è l’unica arma che sembra avere la cultura italiana, per rispondere e non essere – a sua volta – “presa d’assalto”. La precaria condizione economica ha imperversato anche sulla capitale, non risparmiando la rassegna che si è vista costretta a rinunciare a parte della programmazione e a chiedere la collaborazione delle compagnie presenti. Basti citare il ringraziamento pubblico del festival: «…vogliamo ringraziare tutte quelle compagnie e quegli artisti che in tempi di crisi, malgrado la crisi e soprattutto dando l’assalto alla crisi, sono convinti che i processi di produzione artistica non abbiano limiti, di spazio, di tempo di luogo, politici, economici, sociali, culturali, poetici, filosofici, antropologici, architettonici…».
L’occasione che offre questa iniziativa, così decisa e determinata a resistere, è uno spunto per riflettere sulla situazione attuale.
Quante volte, abbiamo sentito parlare di rassegne e teatri chiusi, morti e sepolti; e solo ultimamente iniziano ad arrivare notizie anche sulla stampa nazionale. Per anni hanno chiuso spazi e festival, uno dopo l’altro, morti nel silenzio, nessuno ne ha fatto parola; solo ora, che la vera crisi si fa sentire, iniziamo ad ascoltare e – allo stesso tempo – a parlare: ammettere che le risorse non sono sufficienti, che i tagli sono obbligati e che ridimensionare significa resistere, quando a volte sarebbe più facile mollare.
Cosa vuol dire fare teatro ai limiti del possibile? Quanto coraggio ci vuole e quanta volontà, per non lasciare tutto e rinunciare?
La crisi economica per prima pone queste domande e spinge su un crinale, dove la linea tra fare e non fare è sottilissima, dove la questione ha radici ben più profonde della sola economia, dove rinunciare è il primo passo verso l’estinzione. Ecco che resistere diventa la nuova forma mentis: resisto, dunque sono. Ma a che prezzo? Sembra che un festival oggi sia in qualche modo costretto a “essere” nell’unica forma dei grandi numeri: molti spettacoli per serata, innumerevoli giorni e altrettante attività collaterali. La nitida immagine del “tanto” proietta un’ombra sempre più nera, che costa condizioni lavorative impensabili per la moltitudine di artisti, tecnici e organizzatori che dignitosamente incassano il colpo. E “resistono”, appunto.
Si arriva dunque a chiedersi se non sarebbe meglio abbassare i numeri e alzare la qualità dei rapporti lavorativi. Perché, in fondo, dei limiti esistono, se non politici e culturali, sicuramente economici. Negare l’esistenza di un minim, oltre il quale fare cultura diventa impossibile, significa negare la possibilità futura di ottenere le giuste risorse, che siano esse pubbliche o private. Lasciar passare l’informazione che tutto sia fattibile anche con meno, che la cultura sia un bene a ribasso, è un rischio troppo grande, soprattutto in questo momento storico.
Abbiamo divagato fin troppo allontanandoci da Roma e dimenticando il punto di partenza: Teatri di Vetro, il festival che ha preso d’assalto la crisi, deciso a non mollare, che ha rinunciato a qualcosa per dare spazio alla possibilità.
Camilla Toso