11 compagnie, cioè circa 50 persone, a presentarsi e incontrarsi per quattro giorni di lavoro intensivo (dalle 9 di mattina alle 7 di sera) a Pontedera. Le presenze sono quanto mai differenziate e frastagliate per estetica, provenienza, esperienza. Così varie anche, a quanto raccontano, le sessioni di lavoro giornaliere: 2 ore a disposizione di ogni gruppo, che può liberamente presentare il proprio lavoro tramite racconti, dimostrazioni pratiche, collaborazioni inedite, frammenti di training, di metodo e di spettacolo, per una rassegna che si presenta con un titolo quanto mai rappresentativo ed efficace, Scendere da cavallo, «il momento di riflessione – recita la presentazione – che segue una faticosa cavalcata». Ad avere l’idea, il direttore della Fondazione Pontedera Teatro Roberto Bacci, a seguito del festival di Collinarea di Lari, dove questi gruppi erano presenti col proprio lavoro: proporre, a fianco di un’esperienza spettacolare, un momento intensivo e di una certa durata dedicato all’incontro, alle metodologie, alla discussione – a una pluralità di voci, corpi, esperienze, insomma, che si affacciano di questi tempi sui palcoscenici della ricerca, complici lo sguardo e gli stimoli del critico Andrea Porcheddu, che segue tutte le giornate di lavoro.
Perché questa sembra, a un primo impatto, l’elemento di preziosità di questa iniziativa: offrire un ritaglio di spazio-tempo piuttosto lungo a un altrettanto consistente numero di artisti, per incontrarsi, conoscersi e, perché no, mettersi in discussione di fronte a pressioni che investono trasversalmente il lavoro di tutti, dalle istanze creative ed estetiche a questioni più pratiche, ad altre ancora, etiche e politiche. Certo, molti di loro già si conoscono e si incontrano autonomamente: ma il tempo dilatato delle stagioni o accelerato dei festival – dove si arriva, si fa spettacolo, si smonta e si riparte – rischiano di non garantire durate adeguate; o, quantomeno, non così plurali, a più voci. E, sicuramente, non di fare esperienza, intensiva e diretta, delle modalità di lavoro altrui.
Lo si vede bene, per chi non ha partecipato ai lavori quotidiani, nei tempi che seguono le serate di spettacolo: nel foyer e al bar del Teatro Era, si affollano pensieri, confronti, discussioni, da cui è possibile, forse, distillare un indizio del clima che si è creato nelle giornate di lavoro. Si parla di arte ma anche di molto altro, fra i muri di quello spazio incredibile che è la casa della Fondazione Pontedera Teatro. A “scendere da cavallo” sono, la sera dell’8 febbraio, Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco, storici attori della Compagnia Sud Costa Occidentale, che portano in scena il loro primo lavoro, L’educazione fisica (leggi la recensione), coprodotto dall’Associazione Culturale Uddu, di cui sono co-fondatori. Un progetto davvero particolare, nato, come raccontano gli autori, da un’esperienza fatta senza alcuna volontà o orientamento a diventare spettacolo: un lungo ciclo di laboratori che ha attraversato l’Italia intorno al tema dell’autorialità dell’attore, da cui sono nati gli incontri che hanno condotto alla creazione dello spettacolo e ai 13 performer in scena, fra cui, oltre Civilleri, anche intere compagnie, come la siciliana Quartiatri e quasi tutta Odemà (con Enrico Ballardini e Giulia D’Imperio). L’educazione fisica è un affresco – fondato sulla nettezza dei gesti, quanto sui piccoli dettagli e le micro-relazioni che li legano gli uni agli altri – del potere, della rivolta e del fallimento, rappresentato da 12 atleti di basket e dalla guida del proprio allenatore (Sabino Civilleri), dalla mimica marcata e un’ossessione dilagante per la storica determinazione di Leonida. All’inizio i giovani sono quanto mai sguaiati e colorati, ognuno con un dettaglio di personalità, fino a un’esplosione di più o meno scoordinati esercizi ginnici che invadono lo spazio. È tutto un proliferare di top e fasce variopinte, di cappellini e zainetti, mentre l’allenatore comincia l’indottrinamento: in breve, fra un esercizio (spirituale-fisico) e l’altro, scompaiono i dettagli che definiscono le individualità, tanto negli accessori che nei movimenti; in bianco e nero, tutti si muovono insieme, fino a rispondere all’unisono al coach, come un unico coro e un’unica litania. Di più, che succede se uno non ce la fa a stare al passo? Maglietta arancio, in panchina, emarginato. L’imposizione dell’allenatore non punta solo all’omologazione e disciplinazione della squadra, ma innesca anche una serie di rivalità e concorrenze intestine, che mettono gli atleti l’uno contro l’altro. Così, pian piano, le presenze arancioni sulla panca aumentano, fino a definire quella che sarà la squadra, il cui privilegio è giocare la partita; ma, giunto il momento, l’allenatore non ci sta: sgonfia il pallone, così nessuno giocherà e lui potrà continuare a esercitare il proprio potere, «perché niente cambia, nella vita». Ma, a questo punto, non ci stanno nemmeno loro. E scoppia la rivolta.
Così, tanto più che la recensione è già pubblicata sulla webzine, “scendiamo” anche noi “da cavallo”, attraversando le vivaci discussioni che si animano dopo spettacolo e che permettono di svelare, in parte, l’urgenza che ha condotto Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco a questa creazione: si parla di omologazione delle menti, con richiami ai tanti riferimenti più o meno dichiarati che costellano in questo senso la storia di un Paese. Sicuramente con l’invenzione della ginnastica nel ventennio fascista, che ha tentato di plasmare, irregimentandoli, tanto i corpi che le teste dei propri cittadini; ma anche con i tentativi dilaganti messi in opera dai più recenti mezzi di comunicazione (di massa e non). Ci si spinge, con la celebre guida di Elias Canetti, a interrogare le dinamiche che regolano i comportamenti delle masse; ci raccontano, svelando passaggi del processo di creazione, di una intensa ricerca intorno ai meccanismi di simbolizzazione – la ginnastica, il pallone, Leonida – e sulla costruzione dei personaggi – lui, l’allenatore, e la massa dei 12 atleti. Si ritorna, di continuo, alle condizioni socio-politiche attuali, italiane e non solo. E si parla, soprattutto, di rivoluzione: è lo snodo “caldo” dello spettacolo. Infatti, a un certo punto, quando gli atleti comprendono che si sono scannati per una partita che non si giocherà mai, vincitori e vinti si uniscono di nuovo, per rovesciare la tirannia dell’allenatore; nella messinscena, succede tutto nel giro di un batter di ciglio, e vengono in mente le tante statue abbattute da Stalin a Saddam alla Primavera araba. Ma qui, nella realtà, la rivoluzione è possibile? L’educazione fisica termina con un finale quanto mai inquietante e per niente consolatorio: una volta smantellato il potere del coach, i 12 atleti siedono, un po’ allibiti, sulle loro panche e nessuno ci pensa minimamente ad approfittare del vuoto di potere per giocare, finalmente, la propria partita. Vengono anche in mente, purtroppo, gli esiti più recenti di tante esperienze differenti, come l’apparente dissoluzione della dirompente energia con cui i movimenti Occupy e Indignados avevano scosso, negli anni scorsi, il panorama politico internazionale. Si parla di rivolta e di rivoluzione, di possibilità di ribellione, ma – dentro e fuori lo spettacolo – una domanda resta, sempre pressante: in una situazione di crescente indignazione e di crisi imperante, di evaporazione dei diritti e malgoverno quotidiano, cos’è che ci può portare, oggi, ad alzare la testa? E, soprattutto, anche se lo facessimo, dopo, che succederà?
Roberta Ferraresi