Non sono solo gli spettacoli della grande danza internazionale, della ricerca coreografica più radicale a scuotere dalla fondamenta i canoni e le convenzioni che hanno scandito gli sviluppi e le rigenerazioni del senso e del ruolo delle avanguardie fra Novecento e Duemila (leggi la recensione a Body not fit for Purpose di Burrows e Fargion). È un tema, questo, che in effetti si ritrova a più riprese e in diversi modi in tutta la Biennale Danza di Virgilio Sieni; e che anzi forse si può incontrare a fondamento delle interrogazioni mosse dall’impianto stesso di questo Festival Internazionale della Danza.
Una domanda piuttosto simile pone anche il lavoro di Jérôme Bel, storico énfant terrible della danza internazionale, che con i suoi lavori è spesso tornato a interrogare il senso, il modo e il ruolo dell’avanguardia, stracciando in continuazione cliché, convenzioni e norme ormai consolidate sulle scene di fine Novecento. Come nel lavoro di Burrows e Fargion la questione si muove fra la qualità estetica e la dimensione socio-politica, assumendo come fulcro la densità della reale presenza dello spettatore e della co-presenza, quanto mai autentica, del performer-danzatore. Invitato alla Biennale con due nuove creazioni, entrambe sviluppate con i partecipanti al laboratorio, Bel ha composto due piccole opere che dimostrano l’intenzione di scuotere il senso della presenza del pubblico, il valore della sua partecipazione all’opera d’arte e le sue modalità di accesso ad essa.
Non a caso il coreografo accompagna il suo Senza titolo con una nota del filosofo Marten Spangberg, che assume qui un ruolo determinante: «La possibilità di un’opera d’arte oggi, anche di una coreografia, non è quella di proporre un’affermazione definitiva, ma di invitare lo spettatore a re-inventare se stesso, o forse in senso meno utopico, a ri-cercare la sua ideologia della visione, della costruzione del sé, o dell’articolazione della propria sicurezza. L’opera d’arte non può dire nulla in sé».
Ognuna delle due creazioni – prima nel magnifico salone del Conservatorio con Mondo novo, poi nel foyer del Teatrino di Palazzo Grassi con Senza titolo – viene chiamata a confrontarsi con un modello, un canone. Nel secondo caso il riferimento è quello della danza classica, del ballet: una piroetta, un pliè… Ciascuno dei performer guadagna il centro del palcoscenico e tenta l’esperimento, spesso fallendo. Dimostra così la propria differenza, l’inaderenza dell’uomo al canone, della realtà a un’idea. Così come, poco dopo, recitando un passo (fino al punto che ognuno ricorda) del classico letterario per eccellenza, la Commedia dantesca. Lo stesso alla fine di Mondo novo: dopo la sospensione magnetica creata dalla conta all’unisono scandita ad alta voce di fronte al pubblico (si dovrebbe arrivare a mille, come recita un cartello, ma ci si ferma a 635), uno dei giovani danzatori si porta al centro, guida gli altri in una piccola coreografia; i numerosi performer lo seguono, cercano di imitarlo, ma il grande portato di differenza espresso da ognuno di quei corpi, movimenti e posture impedisce l’armonia, ovvero l’aderenza completa al canone. A fondo sala a volte i corpi del gruppo si sovrappongono, si intrecciano, in qualche caso si toccano. L’esito è vivacemente caotico e il senso è tutto quello degli sguardi puntati sul modello, tesi, tesissimi ad afferrarlo per riproporre lo schema eseguito dal danzatore che guida l’ensemble.
Lo scarto è sicuramente prezioso, la sua ripetizione costruisce una drammaturgia che lievita lentamente, seppure il risultato – accompagnato in entrambi i lavori da crescenti risatine del pubblico, che accolgono affettuosamente le divergenze spesso molto autoironiche fra i danzatori – possa rivelare qualche rischio di incomprensione, sbilanciandosi in qualche caso in ammiccamenti consolatori e sfiorando certe volte la minaccia di convertirsi in un rodeo che vede al centro la figura (ormai purtroppo a gran rischio di retorica) dell’uomo comune, con le sue specificità e la paradossale peculiarità della normalità.
Ma il valore aggiunto che può portare il percorso veneziano di Jérôme Bel a questo discorso, rispetto alle riflessioni che possono venire dagli altri spettacoli in programma di cui si è parlato, si rinviene nel fatto che entrambe le sue creazioni sono state composte insieme ai molti partecipanti al suo workshop. L’occasione è quella di riflettere sulle possibilità, oggi, di un percorso laboratoriale; ad esempio in rapporto alla questione della professionalizzazione e della formazione permanente, ma anche dei rapporti fra il percorso creativo e il luogo (teatrale, cittadino, umano) che lo ospita e delle relazioni che legano e separano processo e prodotto spettacolare.
Non a caso, uno dei grimaldelli più dirompenti con cui, nel secolo scorso, le arti performative hanno attaccato le convenzioni vigenti della scena ufficiale è rappresentato proprio dal laboratorio: contro il prodotto da fruire passivamente, un’ora seduti in poltrona e via; contro lo spettacolo finito e chiuso in se stesso; contro una bellezza comunemente intesa che spesso intrappola invece che lasciar crescere e fluire l’opera; contro questi (e altri) dogmi nel secondo Novecento laboratori, workshop, seminari hanno rappresentato uno strumento primario per rivendicare l’autenticità e la particolarità dell’esperienza performativa. Sia per chi la crea (il processo creativo, il rapporto fra gli artisti, il lavoro sullo spazio…) che per chi ne fruisce o, meglio, per chi vi partecipa (dal coinvolgimento diretto e sensoriale a tutte le modalità intellettive co-autoriali).
Ed è proprio la forma-laboratorio una delle scelte più intense e frequenti del programma di questo festival. La Biennale Danza di Virgilio Sieni, così, sembra inserirsi a pieno fra questi lunghi fili genealogici che legano il nostro presente alla sua tradizione novecentesca e d’avanguardia: è come un grande, grandissimo happening che abbraccia la tutta la città e l’intero microcosmo della danza italiana (e non solo). A partire dalla diffusione e dall’utilizzo di luoghi non convenzionali: pochi, pochissimi i teatri in senso stretto ad ospitare le performance di questa Biennale e molti invece i saloni di palazzi (Conservatorio e Biennale), luoghi riconvertiti in teatri (le straordinarie Tese dell’Arsenale) e le piazze che li circondano.
Ma non si tratta soltanto della fuoriuscita fattuale dallo spazio del teatro e della danza comunemente inteso, per un festival che si innesca nel primo pomeriggio, procede lungo tutta la giornata e si inoltra fino a notte fonda: lo scorso anno Sieni e la sua Biennale hanno preparato il terreno per un progetto capace di coinvolgere i cittadini, dai più piccoli agli anziani, nella creazione degli spettacoli. E poi, ci sono le centinaia di professionisti della danza, danzatori e coreografi, giunti da tutta Italia e dal resto del mondo per prendere parte ai lavori della Biennale. Sembra più un happening grande e partecipato, più un mondo che s’incontra, un ambiente che si crea, che una “normale” rassegna festivaliera.
A coronare le spinte effervescenti di queste molteplici fuoriuscite, la scelta di Rem Koolhaas, curatore della Biennale Architettura, che ha invitato i direttori degli altri settori ad utilizzare gli spazi destinati alla propria mostra: così, passeggiando per le Corderie dell’Arsenale in occasione della conferenza stampa che inaugura il festival di danza, fra una maquette e un video, fra un prototipo e un’installazione, si incappa in palchi piccoli e grandi, abitati dalle prove e dai workshop della Biennale Danza (opportunità che si ha per tutto il festival e poi anche per quello di teatro).
Per concludere, c’è molto in questa Biennale – nel progetto di Sieni e poi nelle effettive modalità di svolgimento del festival, nelle scelte artistiche e in quelle logistiche – che ricorda a più riprese approcci e modi della grande avanguardia del secolo scorso. E quindi viene per forza da chiedersi se l’esito di tutti questi sforzi – salutati con grande entusiasmo sia dal pubblico che dal piccolo mondo del teatro e della danza – andrà a ripetere quello che quelle stagioni ormai storiche racchiudevano in forma di promessa: un’arte più vicina alla realtà e alle persone, capace di grandi slanci estetici ma attentissima alle modalità di incastonarsi e intrecciarsi all’ambiente che la ospita.
Alcune di queste scommesse, nelle grandi stagioni della seconda avanguardia, sono state vinte e anche portate alle estreme conseguenze. In eredità, hanno lasciato domande e ancora un grande lavoro da fare; per esempio come uscire dal vicolo cieco del rapporto fra processo e prodotto, evitando però da un lato di rinunciare al rapporto con il pubblico (rischio in cui spesso sono cadute tante esperienze radicali della ricerca) e dall’altro di offrire allo spettatore una forma spettacolarizzata di processualità, a rischio di convertirsi e cristallizzarsi – una volta portata in scena – essa stessa in prodotto. O anche come gestire la complessità in cui si stratificano le relazioni fra arte e territorio, soprattutto in un ambiente urbano; o infine, come si possa creare un equilibrio fruttuoso e vitale fra pubblico partecipante e professionalità artistica, senza eccedere presso l’uno o l’altro estremo.
Al di là degli spettacoli più o meno belli, dei laboratori più o meno riusciti, della straordinarietà dei luoghi e della vivacità delle piazze, sono brandelli d’eredità che sembra la Biennale di Sieni voglia prendere in carico. In effetti, uno dei pensieri che resta alla fine è quello di una progettualità che prova a riformulare il formato-festival e va inserirsi a pieno nel catalogo di quei pochi e fortunati casi in Italia – ma forse la tendenza, nell’ultimo paio d’anni, si fa sempre più visibile e diffusa – capaci di accogliere (anche) questo tipo di domande. E, fra l’altro, di condividerle con lucidità e rivolgerle anche agli spettatori e ai cittadini che vi prendono parte.
Roberta Ferraresi