Una rassegna piccola, curata e poetica, che sin dal suo titolo sottolinea il carattere defilato, sfuggente, ma perfettamente significante: Defigura_la vena nascosta. Andrea Fazzini, direttore artistico del Teatro Rebis, ha inserito all’interno del progetto più ampio Youbiquity_Moltitudini connesse – ideato dalla stessa compagnia e che si avvale del cofinanziamento della Regione Marche e del Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile della Presidenza del Consiglio de Ministri – questa sezione dedicata al teatro, ma più in generale all’arte performativa e all’esperienza laboratoriale.
Prima di addentrarci nel racconto di ciò che è rimasto impresso e di quello che è stato Defigura, svoltosi a Macerata, è essenziale comprenderne l’anima, descritta nell’introduzione del direttore artistico: «Che cos’è l’esegesi?, s’interroga Georges Didi-Huberman, etimologicamente, è l’atto di condurre fuori da… Condurre fuori l’immagine dalla figura, il silenzio dai segni, l’esterno dall’interno e viceversa. Intuire e decifrare gli indizi che segnalano il vacillare di un sostrato mistico, di una vena nascosta nella vocazione umana all’alto e all’altro. È intrico di prospettive, ferita del senso, è poetica generatrice di enigmi, il cui oggetto è il mistero. Defigura non è un festival, è sospensione di tempo dedicata all’esegesi, è bolla di pensiero, esperimento senza verità, è tentativo pindarico di somigliare al dissimile, di dire il non-dire, di esplorare il fantasma della poesia in voce e materia. Defigura non è per molti, è per tutti, per quella parte di noi che sa cosa tace».
Condurre fuori da sé, trasportare in un altrove, è stato il fil rouge di questo festival. Gli artisti che vi hanno preso parte hanno esplorato in qualche modo dei territori lontani dalla quotidianità, ma allo stesso tempo interiori, talmente intimi da venir percepiti quasi come corpi estranei. Una delle personalità che ha animato il festival, proprio in questo senso, è stato Yann Marussich, artista svizzero controverso, che ha iniziato un personale percorso di lavoro sul tema del controllo dell’immobilità e sul contrasto violento che si può esercitare (o auto-imporre) contro un corpo inerme. Il movimento lento e scivoloso del suo fisico nudo trafitto da una freccia nella performance Blessure (che ha inaugurato Defigura) è la dimostrazione che il tempo – quello che scorre, quello del dolore, ma anche quello più tecnico e dilatato proprio dello spettacolo dal vivo, dello spettatore e dell’artista in scena – non esiste, si annulla o si sospende e trova un senso nella più intima parte di noi quando il messaggio giunge.
Se la performance richiedeva un particolare abbandono del pubblico – che poteva avvenire nell’istante in cui si incrociava lo sguardo ipnotico dell’artista –, il laboratorio che Marussich ha condotto a Macerata domandava questo stesso particolare trasporto ai partecipanti. Dal lavoro svolto in un tempo abbastanza limitato – 5 giorni di workshop – sono emersi dei risultati interessanti (come quello lo studio di Yesenia Trobbiani), ma allo stesso tempo inquieti e turbati: la maggior parte dei ragazzi che ha preso parte al laboratorio ha messo in luce il lato doloroso di sé, dopo aver intrapreso un percorso guidato con precisione chirurgica da Marussich, le cui domande dettagliate non lasciavano spazio a idee raffazzonate o lasciate al caso, ma venivano soppesate e analizzate sotto tutti i punti di vista. Dall’amore che divora all’accettazione dell’impossibile e della morte, dalla volontà di risorgere a quella di tagliarsi i capelli per farne il proprio grido e la propria bandiera, gli esiti del workshop hanno lasciato un segno importante all’interno del festival, ma anche e soprattutto nei partecipanti.
Altra personalità controversa e affascinante, cuore del festival, è stata quella di Frediano Brandetti: un artista-scenografo che riesce a dare forma – tangibile grazie alle sue sculture e allo stesso tempo immateriale grazie alla sua poetica – ai ricordi, alla memoria, alla più intima parte dell’uomo. In uno degli spazi dell’ex mattatoio maceratese, Brandetti ha costruito diversi artefatti atti a contenere le pozzanghere della propria esistenza. Ogni pozza, inizialmente ricoperta da un telo nero su cui l’artista poggiava delicatamente le mani evocando un fantasma, regalava al pubblico un frammento di esistenza, scavato dalla delicatezza delle sue dita: da una casa a una coppia, da un uomo a giochi di infanzia. Ciascuna pozzanghera era un ricordo lontano, caricatura di un pensiero sfocato che più il pubblico guardava, più diventava oggetto indefinito. Sollevando il telo nero imbevuto d’acqua, Brandetti salvava un ricordo e donava al pubblico immagini distorte della propria interiorità: una “esplorazione”, come l’ha definita l’artista stesso, un viaggio all’interno della memoria di un uomo.
Altre voci hanno movimentato il festival: da quelle arrivate per il raduno nazionale degli artisti – da Attilio Scarpellini a Claudio Morganti – alle piccole performance poetiche ed estemporanee del poliedrico Patrizio Esposito, in cui anche una scavatrice può acquistare una dignità altra danzando su uno spazio che durante il giorno è adibito all’edilizia. Il braccio della scavatrice in Esterno ha mostrato come sia possibile vedere la poesia nelle più piccole cose del quotidiano, dove meno ci si aspetta possa apparire.
A concludere Defigura è arrivata un’importante personalità del teatro italiano: Chiara Guidi, cofondatrice insieme a Romeo e Claudia Castellucci della Socìetas Raffaello Sanzio. L’artista di Cesena ha condotto un workshop intensivo di due giorni intitolato Nulla è per me tranne ciò che non è, dedicato alla figura di Macbeth (leggi un approfondimento di Roberta Ferraresi). Un laboratorio sulla potenza della presenza fisica in scena, sull’intonazione, sulla voce. La Guidi ha mostrato la sua grande capacità di formatrice, e dispensato consigli da segnare su un taccuino: dal fatto che «il teatro di ricerca è un processo analogico per conoscere ciò che non si conosce», all’importanza della recitazione, atta a riempire uno spazio interno attraverso un’immaginazione che deve essere continuamente nutrita. Ma soprattutto quello che deve fare un attore, con la propria voce, con la propria gestualità: «modellare il vuoto, costruire le pause e non aver bisogno di soffocare il vuoto, perché il teatro non è libertà, ma è una regola». Ed è nella regola che si può provare l’estasi: quando si cade nella fondazione di un’altra immaginazione o nella stessa realtà ricreata (dove quest’ultime sono dettagliatamente regolate), allora si prova l’abbandono, ci si lascia trasportare dalle emozioni che risiedono sempre dietro una vena nascosta che si possiede; è nel nostro intimo, non si può costruire ma si può svelare o sentire grazie, anche, all’arte performativa.
Carlotta Tringali