“L’aurora è il tentativo/del volto celeste/di simulare, per noi/l’inconsapevolezza della perfezione” scriveva Emily Dickinson in una delle sue poesie. Con il suo nuovo spettacolo Alessandro Sciarroni non cerca la perfezione, ma rende palese il potere della percezione, suggerendo che per la danza (e il teatro, o la performance live in generale) è tempo di una nuova aurora: lontano dagli schemi, non riconducibile a un sapere comune che sia facile da etichettare.
La trilogia del coreografo marchigiano Will you still love me tomorrow? si chiude con Aurora, presentato al Torinodanza Festival: uno spettacolo poetico, toccante. Un’opera che chiede al pubblico di liberarsi di ogni costrizione mentale per vivere un momento speciale, provando lo stupore della bellezza che si nasconde e che si svela all’improvviso squarciando le tenebre. Dopo Folk-s, in cui gli occhi dei performer erano inizialmente coperti dal nastro che impediva loro di vedere e dopo Untitled, che presentava nella prima scena quattro giocolieri a occhi chiusi, arriva Aurora che porta a compimento il percorso avvenuto fin qui: i performer sono ipovedenti o ciechi dalla nascita. Questo ultimo capitolo aggiunge quindi nuovi tasselli a quel viaggio affascinante che è stata tutta la trilogia, un’esperienza difficile da definire perché è qualcosa che fuoriesce dalla danza e non è teatro, semplicemente è ritmo puro, è suono che prende forma, è dilatazione del tempo, è amplificazione della percezione, è riproduzione di un gesto decontestualizzato che sul palcoscenico si fa opera d’arte, ready made teatrale. È qualcosa a cui si guarda con delicatezza, col fiato sospeso, con affetto; si percepisce che il capitano di questo viaggio – Alessandro Sciarroni, appunto – ha guidato il tutto con una grande cura, attenta, dettagliata, partecipata e sentita. Eppure, in Aurora, c’è un ribaltamento: lo spettacolo, diversamente da Folk-s e da Untitled, prende il via con i performer in scena con gli occhi aperti. Capovolgimento della percezione: inizia il viaggio e il godimento intellettuale nella testa di chi assiste. Niente è come sembra. La nostra percezione è completamente disorientata.
Aurora ripropone una partita reale di Goalball, disciplina paralimpica dedicata ai non vedenti e ipovedenti, in cui due squadre, formate da tre giocatori e due riserve l’una disposte su due lati contrapposti di un campo, lanciano una palla che contiene dei sonagli metallici tentando di fare goal nella porta avversaria. Il palcoscenico diventa, per mano e mente di Sciarroni, una palestra sportiva, con due porte laterali e segni a terra che ripropongono un vero terreno da gioco. A seguire i movimenti delle due squadre sono due arbitri/guardalinee con cronometro e fischietto al collo che mettono una speciale maschera nera a tutti i giocatori, richiamano il silenzio, segnano il punteggio, consegnano la palla quando finisce fuori. Una volta formate le squadre, in un silenzio surreale, i sei performer sul campo iniziano il riscaldamento: si piegano, si lanciano a terra, eseguono piccole corse sul posto; è l’attesa frenetica di chi sta per affrontare una sfida, la sente, la percepisce ma non la può vedere, se non nella sua mente.
E poi inizia il gioco e in chi guarda il viaggio. Non è solo una semplice partita di Goalball, è un’eco della sensibilità, della poesia di un gesto incredibile come quello di una persona non vedente che attraverso dei piccoli accorgimenti riesce a spostarsi con sicurezza in campo, parare la palla, collaborare coi compagni di squadra con disinvoltura e precisione del movimento. I sei performer sono dei discoboli quando lanciano, degli atleti posti quasi in una condizione divinatoria. I gesti e i suoni, che fanno tra di loro per distrarre gli avversari o per comunicare, incantano: la gestualità è qui al servizio del suono – lo schiocco delle dita, il tamburellare sulla palla o per terra, lo schioccare la lingua sul palato, il battito delle mani. Ma cosa succede quando la luce si fa sempre più debole, flebile, come lo scorrere del giorno quando arriva verso la sua fine e si fa notte fino a lasciarci al buio completo, a non vedere più i gesti e la palla che si muove? Anche noi – come i giocatori – siamo costretti a seguire i movimenti solo ed esclusivamente attraverso il suono proveniente dal sonaglio posto dentro la palla, attraverso il rumore dei passi. Le traiettorie cambiano e noi non capiamo come. Siamo nella loro stessa condizione visiva, ma non abbiamo gli altri sensi – udito in primis – sviluppati come chi non vede. E cosa succede se la musica della performance si alza fino a coprire ogni altro suono? I giocatori perdono completamente il loro orientamento, non riescono a giocare, a seguire l’unica cosa che li guida nel buio. La loro gestualità perde senso, il movimento è privo di ritmo e l’empatia dello spettatore nei confronti di chi è in scena si alza a un livello inaudito. Sciarroni è un poeta del gesto, che non è più quello proprio di un corpo in movimento, ma ha qui la capacità di rendere meno astratto il suono, dotato anch’esso di una sua gestualità che prima di oggi non avevamo mai visto. Aurora è la conclusione perfetta di una trilogia che risponde alla domanda retorica posta dal titolo: will you still love me tomorrow?
Carlotta Tringali