Resistere all’urto del caso. Disporsi ad esso, imparare ad accettarlo ed essere pronti ad accoglierlo: l’incontro con l’arte e la performance potrebbe proprio partire da questo concetto per farci indagare dentro noi stessi e leggere la realtà che ci circonda. Grazie a Contemporanea Festival, arrivato quest’anno alla sua ventesima edizione, si è sviluppata una certa predisposizione a quell’urto frequente, soprattutto da quando negli ultimi anni si è interrogato intorno a una tematica eloquente, ossia al “vivere al tempo del crollo”. È come se si volesse fornire alla comunità che frequenta il festival gli strumenti per orientarsi nel presente sapendo parare i colpi che riserva il futuro. Sembra un gioco semplice ma poi, quando ci si trova di fronte a performance in cui la temporalità si annulla e la condizione di disagio in cui si è posti paralizza sulla sedia, ci si interroga cercando di capire cosa sia successo. Ci si chiede quali corde emotive un lavoro artistico sia andato a toccare: scatta una riflessione sul valore dell’opera vista e contemporaneamente si indagano le sensazioni interiori suscitate. Lo sguardo dello spettatore diventa così strabico (prendendo in prestito una suggestione di Licia Lanera): un occhio è rivolto verso l’esterno e l’altro verso se stessi. Davanti al crollo come comportarsi? Di fronte a una risata inquieta come reagire? E dinnanzi a una crepa temporale, cosa pensare?
A Contemporanea due spettacoli tra loro diversissimi eppure con forti punti di contatto hanno attraversato queste tematiche.
In Contes Immoraux – Partie 1: Maison Mère, la performer Phia Ménard costruisce per l’intero arco dello spettacolo una grande casa in cartone partendo proprio dalle fondamenta: elimina gli elementi superflui come se bonificasse il terreno per poi tirare su le pareti armata di nastro adesivo e apposite stampelle utilizzate per aiutarsi a tenere in continuo equilibrio una struttura precaria, sottile ma pesantissima. A spiccare sulla scena l’attrice vestita come una improbabile cyber guerriera, che richiama figure iconiche come Daryl Hannah in Blade runner, con la stessa mascherina nera disegnata sugli occhi e calze strappate sotto una giacca di pelle per incarnare un essere che travalica genere e tendenze; ma il richiamo forte è anche verso Klaus Kinski, tra la fisicità barbarica di Aguirre e la visionarietà folle da impresa eccezionale di Fitzcarraldo: dopotutto, la Ménard catapulta il pubblico in un’esperienza straniante, allucinante e unica.
Progetto commissionato da Documenta 14 di Kassel nel 2017, quando la famosa mostra d’arte si trasferì per l’inaugurazione ad Atene, culla della civiltà europea ed occidentale, Maison Mère richiama esplicitamente il Piano Marshall con cui si volevano ricostruire i territori distrutti del vecchio continente, devastato dalla seconda guerra mondiale, con edifici prefabbricati. Ma questo è solo il punto di partenza, dato che lo spettacolo, che attraversa diversi stili e linguaggi travalicando i confini tra danza, teatro, nouveau cirque e mimo, contiene in sé e nel suo divenire una stratificazione di possibili letture. È come se ci trovassimo di fronte a infiniti specchi su cui ogni spettatore può riflettere le proprie speranze, desideri, paure: la costruzione di una casa può esser metafora della realizzazione della vita di un singolo, ma anche lo sviluppo di una comunità e di una civiltà, soprattutto se quella casa in cartone, una volta terminata la sua edificazione, prende la forma del Partenone. Ma quanto tempo si impiega a costruire una casa, una vita, una civiltà? La temporalità nella performance implode: si passa dalla noia iniziale – assisteremo per novanta minuti alla realizzazione di una casa? – alla sospensione del tempo – come riesce quella parete di cartone a reggersi in bilico senza cadere? – e alla sua stupefacente accelerazione data dall’effetto sorpresa finale in cui una fitta pioggia si riversa sulla casa/Partenone appena edificata/o, facendo crollare tutto, lasciando pubblico e performer attoniti spettatori: sono bastati novanta minuti per vedere nascere e morire una casa, una vita, una civiltà. Come se Maison Mère fosse un potentissimo Kalachakra – ossia una “ruota del tempo” citando il documentario di Werner Herzog in cui si racconta della cerimonia d’iniziazione buddista della creazione di un mandala di sabbia che viene distrutto per favorire l’illuminazione dei credenti e visualizzare la meditazione interiore – in cui si vivono tutte le emozioni che l’uomo attraversa nel corso di un’esistenza in un’ora di spettacolo. Dalla noia allo stupore, ma anche dalla compassione – a tratti si vorrebbe aiutare la Ménard a sorreggere quella stampella che continuamente cade –, alla tristezza e rabbia che si prova sul finale nel vedere la distruzione di questa incredibile creazione. Le infinite letture, l’implosione del tempo, le molteplici emozioni si attraversano grazie all’impresa di un folle, come Herzog propone nei suoi film e come Phia Ménard ben rammenta. E lo spettacolo diventa allora quel grande kalachakra, quel rito propiziatorio che si consuma ogni volta che va in scena, che ci ricorda come tutto quello che si costruisce con grande dedizione potrebbe anche distruggersi all’improvviso, in un attimo.
L’atemporalità e le varie emozioni che l’animo umano può attraversare davanti a una performance artistica sono presenti anche in un altro lavoro andato in scena a Contemporanea: Augusto di Alessandro Sciarroni. Appena insignito del Leone d’Oro alla Biennale di Venezia – sezione danza, l’artista marchigiano ha abituato il suo pubblico a spettacoli che travalicano i generi, utilizzando linguaggi che si piegano al progetto che gli interessa sviluppare in quel momento. E allora danza, teatro, ready made, circo, sport, canto e visual si mescolano per trasportare lo spettatore in mondi altri, in cui il “ben definito” viene meno per lasciare posto al possibile che prima non era stato ancora immaginato, o forse volutamente indagato. Con Augusto si va in un territorio poco esplorato, che si tende ad allontanare: la condizione di disagio. In un crescendo fisico ma soprattutto emotivo, i nove performer in scena camminano circolarmente come ci trovassimo di fronte a un orologio le cui lancette sono però inceppate e il tempo annullato; si guardano, ammiccano, si cercano, si toccano, si prendono per mano, si lasciano e si rincorrono iniziando a sorridere come se seguissero le regole di un gioco in cui il pubblico è chiamato a partecipare, a poco a poco, invitato dagli sguardi che gli attori/danzatori/cantanti lanciano in platea rompendo una circolarità dal difficile accesso. Difficile perché il divertimento che potrebbe suscitare l’espressione iniziale dei performer dura ben poco: il sorriso esplode in una risata convulsa e straniante, nelle cui pieghe si leggono dolore, rabbia, disperazione, violenza. Si assiste a una continua trasformazione emotiva e psicologica di questi nove performer che ci chiedono così di condividere il loro disagio, in cui il canto straziante di Monteverdi viene subito ricondotto a una risata quasi isterica, le lacrime versate in scena sono riconvertite in uno spasmo toracico che rimanda a un’ilarità forzata. L’eccezione non è ammessa, il gioco tremendo a cui si assiste contempla solo la risata: quella del clown, a cui rimanda il titolo dello spettacolo, quella di una società patinata che non ammette brutture, nasconde il malessere e promuove il divertimento facile, tentando di allontanare il disagio. Con questo spettacolo Sciarroni ha toccato (e anticipato?) un tema caldo del nostro presente visto che il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia è andato proprio a un film che fa del ghigno malato il suo cavallo di battaglia: guardando ad Augusto impossibile non pensare a quel Joker interpretato da un Joaquin Phoenix in stato di grazia, clown fallito con il disturbo patologico della risata. Forse è stato l’urto del caso a far ritrovare le tematiche di Augusto nel film di Todd Phillips di cui tutti parlano, o forse la condizione di disagio è insita nella nostra contemporaneità al punto di farci vivere e resistere al tempo del crollo.
Carlotta Tringali