Recensione a “One Man, Two Guvnors” – Royal National Theatre
Si dice che Londra sia la città del teatro, per l’incredibile numero di palcoscenici che ospita e per la quantità di spettatori che affollano ogni settimana i grandi teatri del centro e le piccole sale dislocate nei vari quartieri. Tutti i turisti sanno che qui si trova la fedele ricostruzione del Globe shakespeariano, che ci sono l’Old Vic, il Royal National Theatre, la Royal Opera House e la Royal Albert Hall, ma c’è un’ulteriore ragione per cui Londra viene definita la capitale del teatro: il West End. Il quadrilatero patria del musical in Europa che sforna continuamente successi commerciali seguendo poche e semplici regole: una storia divertente, romantica o intrigante raccontata con le migliori tecniche dello spettacolo dal vivo, le più grandiose, magiche e coinvolgenti. Puro intrattenimento.
Tra i molti musical in programmazione lungo Charing Cross, si distingue uno spettacolo di prosa che porta a Londra una delle massime espressioni della grande tradizione teatrale italiana, One Man, Two Guvnors. Nel maggio 2011 e per l’intera durata dell’estate, il Royal National Theatre ha messo in scena al Lyttleton Theatre nel Southbank una nuova produzione, liberamente tratta da Il servitore di due padroni di Goldoni. Ne ha affidato la riscrittura a Richard Bean, famoso e pluripremiato drammaturgo inglese che ha ambientato la storia nella Brighton degli anni Sessanta impastando la sua lingua con il cockney, sorta di slang del sud est d’Inghilterra. La regia è stata curata da Nicholas Hytner, direttore artistico del National Theatre e il ruolo principale è stato affidato a James Corden, famoso attore comico, presentatore televisivo e one man show britannico.
Un prodotto perfettamente congeniato per avere successo che puntualmente diventa unmissable (imperdibile, ndr), tanto da convincere il National Theatre a prolungarne la programmazione nel West End come già per i precedenti War Horse e Fela. Francis/Arlecchino approda quindi all’Adelphi Theatre dove resterà in scena fino al 25 febbraio per poi spostarsi nuovamente al Theatre Royal Haymarket.
Davanti al curioso sipario giallo e blu, entrano in scena quattro musicisti che ricordano apertamente i Beatles e attaccano un motivetto rock ‘n roll in puro stile anni Sessanta. Quando il pubblico è accomodato in sala, i musicisti smettono di suonare e il sipario si apre su un soggiorno inglese in cui si sta svolgendo la festa per l’annuncio del matrimonio di Pauline Clench (Clarice) e Alan Dangle (Silvio). L’intreccio narrativo e il carattere dei personaggi sono fedeli all’originale con qualche inevitabile aggiustamento dovuto alla nuova ambientazione: Dolly (Smeraldina) non è la serva di Pantalone, ma l’impiegata di Charlie “The Duck” Clench, Rachel e Stanley (Beatrice e Florindo) progettano di fuggire in Australia, Alan è un ragazzotto che vuole fare l’attore e recita ogni battuta come fosse un mediocre e ridicolo Romeo.
Ciò che però distingue davvero questa versione british, non è il cockney o i costumi o le scenografie, in cui il mare di Brighton rimpiazza l’acqua veneziana e la locanda di Pulcinella lascia spazio al Pub di Lloyd Boateng. La vera peculiarità sta nel cuore profondo della commedia, nella sua comicità. Gag e slapstick, freddure, battute sulle differenze sociali e rimandi a una non ancora potente Margaret Thatcher condiscono il racconto.
Si intravedono Mr. Bean, Little Britain, Monty Python, Peter Sellers e chissà quanti altri rimandi che sa cogliere il pubblico in sala. La scena simbolo della commedia divenuta celebre nella versione di Strehler – il pranzo che Arlecchino serve ai suoi due padroni – diventa il metro con cui misurare la differenza tra la versione italiana e quella inglese. Nell’opera originale la grandezza della sequenza è data dalla bravura e dall’agilità di Arlecchino che si destreggia nella confusione e nell’istinto famelico con lanci di piatti, salti mortali, corse affannate e buffe posizioni del corpo. Nella versione inglese invece, la risata è innescata da porte sbattute in faccia, camerieri novantenni che crollano giù dalle scale, persone prese dal pubblico e portate in scena per essere nascoste sotto il tavolo e ricoperte di schiuma d’estintore.
I piatti in francese che Arlecchino/Francis non sa pronunciare, la divisione delle polpette e le continue sottrazioni di cibo che il protagonista compie ai danni dei padroni – in definitiva, la sua fame atavica e archetipica – rimangono la base della drammaturgia, ma l’intervento registico e gli espedienti scenici raccontano due culture diverse.
Se Carlo Goldoni accompagnò la rivoluzione della Commedia dell’Arte nel teatro professionale e Giorgio Strehler riportò in vita la tradizione, facendo riscoprire al proprio paese e al mondo le radici del teatro italiano, One Man coglie l’occasione per fare l’inventario del British Humor, innestandolo con naturalezza sul canovaccio originale. Osservando la sala e il riso spontaneo, immediato e familiare del pubblico londinese, non si può che riscoprire la forza scenica dell’Arlecchino, capace di attraversare i secoli e adattarsi a diverse declinazioni senza mai tradire quel bagaglio di comicità immortale che porta in sé.
Visto all’Adelphi Theatre di Londra
Margherita Gallo
Grazie Margherita,
hai fatto venire una voglia di correre a Londra solo per assistere a questo spettacolo.
riccardo carbutti