Intervista a Michele Sambin – Tam Teatromusica – a cura di Agnese Bellato e Camilla Toso
Come si è formato il gruppo TAM Teatromusica, quali sono gli ambiti artistici dai quali provenite e qual è stato il vostro percorso di avvicinamento al teatro?
Negli anni ’70 ho svolto un’attività (ora molto riscoperta) legata alla performance e alla video arte. La mia idea di lavoro sul rapporto immagine-suono era un’idea molto giovanile, in quanto, essendo io pittore e musicista, non volevo rinunciare a nessuno dei due linguaggi. L’idea di coniugare immagini e suoni quindi mi appartiene fin dalle origini. Quando lavoravo nel campo delle Arti visive, i confini tra poesia, danza e performance erano aperti, privi di muri di separazione tra i differenti linguaggi. Quindi mi trovavo a mio agio in quest’ambito elastico.
Poi, alla fine degli anni ’70, con il movimento della Transavanguardia capitanata da Achille Bonito Oliva, c’è un momento di grande restaurazione nel mondo dell’arte, in cui ogni ambito si chiude nuovamente in se stesso a causa anche dei problemi in cui è immerso il mercato dell’arte: in particolare per l’assenza di opere realizzate con supporti concreti che possano essere venduti. Infatti, in ambito performativo, come vendere il corpo dell’artista? Questo momento di restaurazione è stato quindi necessario per smuovere il mercato dell’arte.
Io avevo fatto un lavoro sulle video-performance, non mi interessava il video inteso come supporto che immobilizza una situazione, ma come estensione delle possibilità del performer. Quindi il lavoro avveniva in tempo reale, il pubblico vedeva l’evoluzione dello spettacolo con l’ausilio del video.
Con la Transavangurdia non mi sono rinchiuso nel mio studio, era più importante il lavoro qui ed ora in relazione con lo spettatore. La mia non è stata un’entrata classica nel mondo teatrale, ma un trovare, soprattutto inizialmente, il necessario spazio per proseguire il mio percorso performativo.
Gradualmente il teatro mi ha chiesto di andare verso forme più teatrali, come ad esempio nell’esperienza di uno spettacolo nato, stranamente, a partire da un canovaccio di Goldoni (in co-produzione col Teatro delle Albe). In me c’è quindi una matrice da artista/performer, che si confronta poi con la dimensione letteraria del teatro.
In questi trent’anni il nostro lavoro (con il Tam) sembra molto anomalo, in confronto al resto del mondo teatrale: ci siamo ad esempio avvicinati al Teatro Ragazzi (per la mancanza di preconcetti che permettono di comunicare con i bambini), poi abbiamo attraversato una fase di teatro di letteratura (con Ruzzante), in quel caso, piuttosto che guardare al futuro, mi sono voltato indietro verso le mie origini di padovano. Poi ho ritrovato le radici della performance, circa dieci anni fa, quando ho cominciato a lavorare con le nuove generazioni, con le quali ci si sente impegnati in un gioco, un passaggio tra maestro e allievi, in cui ci si racconta ai giovani. Io ora recupero la dimensione performativa assieme a questi giovani, alcuni dei quali lavorano tuttora in de_FORMA.
Ci sono degli artisti ai quali vi siete ispirati e con i quali vi rapportate tuttora?
Come punti di riferimento giovanili ci sono principalmente due personaggi: uno è Mauricio Kagel, maestro dell’avanguardia musicale in Germania, recentemente scomparso, la cui formazione musicale nella ricerca di un’arte totale, lo ha spinto a una presenza teatrale del musicista, che quindi non è più solo semplice esecutore di suoni, ma attore consapevole della propria fisicità scenica.
Altro punto di riferimento che sento vicino al mio percorso è Laurie Anderson, con la quale ho condiviso situazioni di performance negli anni ‘70, in particolare nei primi anni ’80, quando è stata invitata al festival di Sant’Arcangelo.
Tra loro sembrano mondi lontani: Kagel è un musicista di rigida formazione accademica che diviene poi di rottura; Anderson, invece, appartenente alle arti visive, che si colloca poi a sua volta nella dimensione musicale. Il nostro DNA multimediale si vede fiorire ora in molte situazioni, anche nei gruppi giovani, non ne cito, ma è strano e mi dispiace che questi gruppi spesso non conoscano ciò che già è stato fatto. Anche per questo ci stiamo dedicando ad un’opera di archiviazione dei nostri lavori degli ultimi trent’anni: è una raccolta digitale del nostro percorso teatrale (con documenti, appunti, recensioni e fotografie di circa settanta spettacoli), strumento per rendere pubblico il nostro lavoro.
Parlando di de_FORMA, ci sono dei precisi riferimenti a Beckett?
Il riferimento a Beckett in de_FORMA c’è in generale, ed il testo di chiusura dello spettacolo è suo. Durante l’elaborazione del lavoro abbiamo travato un tipo di clima che ci avvicinava a lui, allora abbiamo voluto legarcene ancora di più. Ma in realtà la matrice di riferimento è tutto il ‘900, compreso lo stesso Kagel. Io mi sento debitore a tutta l’Avanguardia, poi naturalmente c’è il lavoro di sperimentazione che solo le nuove tecnologie possono supportare, come ad esempio l’uso della pittura digitale.