Da “Radi…che?!” al Festival di oggi e di domani

foto di Omar Padilla

Intervista ad Anna Giannelli

Anna Giannelli, ufficio stampa di Estate a Radicondoli e anima del Festival fin dall’inizio, racconta immagini e aneddoti, spirito e obiettivi di una iniziativa che, da rassegna musicale si è trasformata in uno dei festival più attenti alle trasformazioni del teatro.


Com’è stata la prima edizione del Festival Estate a Radicondoli e come esso si è evoluto negli anni?

La prima è stata un’edizione musicale, non era un vero e proprio festival, ma una serie di concerti polifonici che venivano presentati nel Convento di San Bernardino, un edificio bellissimo del ‘400, ora trasformato in un albergo. Sono arrivata qui per caso: avevo dovuto rinunciare ad un lavoro in ufficio stampa a La Versiliana Festival ed ero senza lavoro. Avevo incontrato Giancarlo Calamai, che era stato direttore artistico del Teatro Metastasio di Prato e che organizzava i concerti in questo luogo così bello. Non avevo nulla da fare e allora decisi di dargli una mano. Venni qui in maggio o giugno, il paese era molto bello e mi colpì subito già da lontano.
Quando telefonavo alle redazioni dei giornali per promuovere il nuovo festival a Radicondoli, mi rispondevano «Radi…che??»: il paese era sconosciuto e tutti lo scambiavano con Radicofani, rifugio del brigante trecentesco Ghino di Tacco, famoso all’epoca in quanto pseudonimo usato da Bettino Craxi per scrivere sui giornali. Il festival si è svolto per diversi anni negli spazi del Convento, sotto la direzione di Calamai, con concerti, spettacoli, letture. Negli anni abbiamo ospitato diversi artisti: c’era Luciano Berio, che partecipava con l’Accademia Bizantina, o Franca Valeri, con i suoi giovani studenti di lirica; sono venuti i fratelli Canavacciuolo, tutti e due; sono passati il Teatro delle Briciole e il Teatro Nucleo, il cui QUIJOTE! ebbe un certo successo.
Un piccolo successo legato al festival fu un concorso per giovani poeti: li abbiamo accolti qui per due o tre anni, ospitandoli per una settimana in cui si svolgevano incontri con poeti affermati e l’ultimo giorno veniva scelto il premiato.
Abbiamo fatto anche dei libri: uno intitolato Ahi ahi i figliol di troia non muoion mai sui comici toscani e poi uno su Ugo Chiti e l’Arca Azzurra, con tutti gli spettacoli e gli attori della compagnia. E poi si organizzavano mostre… Addirittura un anno c’è stata una divertentissima rassegna di progetti per dolci, uno dei quali è stato poi anche realizzato e lo abbiamo mangiato!
Dopo qualche anno iniziarono a mancare i finanziamenti e Giancarlo Calamai non poteva far fronte a tutte le spese. Dopo nove anni circa, fu istituita l’Associazione Radicondoli Arte (Presidente Paolo Radi) con la quale portammo avanti la decima edizione, senza però alcun direttore artistico. Fu grazie al sostegno costante della giunta comunale e dei sindaci Ivo Dei, Ettore Barbucci, Luciano Cillerai  che fu possibile portare avanti il Festival. Nel frattempo Nico Garrone, nel 1995, venne a vedere alcuni spettacoli e scoprì Radicondoli – anche se gli spettacoli che vide non gli piacquero molto. Così quando Giancarlo Calamai lasciò la direzione, parlai con Nico e gli chiesi consiglio. Lui mi incoraggiò, fu così che preparammo il programma insieme, con la presenza di Dacia Maraini. L’anno successivo l’Associazione e il Sindaco di allora, chiesero a Nico se voleva far parte di questa avventura e lui accettò molto volentieri: diceva che in Toscana c’era tutto, bastava guardarsi intorno, scegliere le compagnie, raccogliere il meglio della musica, della prosa, della danza. E così fece. Da allora, ogni suo festival ha avuto un titolo: Attori e non attori (2003), con teatranti professionisti e compagnie amatoriali – la toscana è ricca di gruppi di questo tipo, anche molto bravi; Di e Da, che sembrava un po’ una filastrocca, in cui si presentavano adattamenti e allestimenti, appunto, “da e di” un autore; poi c’è stato Iconoclastici Comici Concettuali Poeti, nel 2008, o Bussotti Berio Brecht, nome di una sezione del 2004. Sempre centrando e portando a Radicondoli quello che lo aveva incuriosito durante la stagione invernale. Sempre allacciando dei fili, era tutto sempre molto collegato. Da uno spettacolo si passava ad un altro – poteva non sembrare collegato – però poi si ritrovava sempre un filo conduttore. Insieme a Nico arrivavano anche altre persone e personaggi (c’era un ambiente molto particolare) che giravano intorno a questo festival. Nico cercava anche di focalizzare l’attenzione su alcune compagnie toscane, creando delle specie di monografie. Per esempio l’Arca Azzurra  di Ugo Chiti, che ha rimesso in scena per noi i suoi primi spettacoli, come Volta la carta, creazione itinerante particolarmente suggestiva; Micha van Hoecke, coreografo belga, e Barbara Nativi col Teatro della Limonaia.
Poi Nico si è ammalato e in breve tempo è morto. Quindi la 23esima edizione l’abbiamo fatta senza di lui. L’ho curata io perché avevamo già parlato di cosa fare: volevamo concentrarci sulle produzioni di Teatro Ragazzi – lui diceva per “adulti accompagnati” – perché era affascinato dal teatro dedicato ai giovani.
Questa diciamo è la storia della direzione artistica, poi ci sarebbero le altre storie del festival. Ad esempio quella della direzione tecnica: all’inizio, quando si trattava di concerti o di piccoli monologhi, c’era l’elettricista del paese che faceva tutto da solo, ma quando le esigenze sono cresciute con il festival, c’è stata la necessità di un’organizzazione più articolata ed è così che Fabio De Pasquale, che era all’Arca Azzurra, se ne occupa ormai da una decina d’anni.

Che rapporto si è instaurato con il paese di Radicondoli, con i suoi abitanti? E come si è trasformato negli anni?
Inizialmente la popolazione era curiosa perché poteva tornare in un luogo – il Convento – legato all’infanzia: un tempo la presenza dei frati e della chiesa era molto sentita mentre poi, non essendoci più nessuno, era rimasto abbandonato. La musica, così, ha fatto rivivere quegli spazi, li ha risvegliati, e le persone venivano volentieri. Quando il Festival è cresciuto, gli spettacoli sono diventati più complessi e ci siamo trasferiti in paese, forse è stata percepita una specie di piccola invasione di campo: arrivava, venendo da fuori, qualcosa che nessuno aveva richiesto. Piano piano abbiamo pensato che era importante stare nel cuore del paese, perché ci conoscessero e apprezzassero, per stare più vicini, perché credo che il teatro debba essere accolto. Per me il teatro è ossigeno, aria che si respira, un’esigenza, una necessità, un bisogno, è una cosa che ti spiega e ti rivela cose private e sociali, cose intime e diffuse. A me personalmente piace davvero per il calore umano, la presenza viva, la vicinanza delle persone, del loro farsi sentire, esserci.

Qual è lo spettacolo che ricorda con più piacere?
È A-Ronne, con i testi di Edoardo Sanguineti, le musiche di Luciano Berio e i pupazzi diAmy Luckenbach. È stato uno spettacolo straordinario, che ricordo con particolare piacere.

Un’immagine-chiave, rappresentativa della storia del Festival?
Per me è la gioia e la curiosità delle persone che vengono da fuori – venire a Radicondoli non è semplicissimo – si presentano al botteghino a comprare i biglietti e ci rimangono male se sono finiti. Questo mi incoraggia ad andare avanti, perché vuol dire che c’è un’attrazione, che quello che facciamo non solo serve nel paese, ma anche al di fuori.

Un aneddoto particolare legato alla storia del Festival...
Prova orale per membri esterni aveva destato una certa curiosità. È andato in scena al Ristorante La Pergola: a un certo punto della serata sono state interrotte le cene e Lunetta Savino ha recitato sulla terrazza del ristorante. C’erano moltissime persone del paese che erano venuti, incuriositi, non tanto per Lunetta, ma per via di questo titolo particolare. Si aspettavano chissà cosa, e invece era uno spettacolo, seppur tutto giocato sul doppio senso del titolo, molto equilibrato.
Altri aneddoti sono legati a tutte le persone che, negli anni, sono arrivate fino a qui: Ruggero Orlando venne, una volta, perché il figlio aveva un concerto; mentre Maurizio Grande, che scriveva su «Rinascita» ed era professore in Calabria e poi a Siena, frequentava il Festival nei suoi primi anni. Era venuto anche Cappelletti per I Dialoghi delle Carmelitane, una lettura alla Chiesa della Madonna con Marisa Fabbri, Franca Nuti e Paola Mannoni. 
Infine ricordo Io Paola la commediante, testo che Mario Luzi aveva scritto per Paola Borboni e che fu portato in scena da Marisa Fabbri, diretta da Barbara Nativi.

Perché continuare e tornare ogni anno a lavorare qui?
Me lo chiedo anch’io, perché in realtà questo Festival è faticoso, bisogna mettere insieme troppe cose e non ci sono molti aiuti, è una gran responsabilità e una bella fatica.
L’anno scorso ero ben decisa a chiudere, perché poteva rinnovarsi tutta la struttura – come la direzione artistica anche l’ufficio stampa. Ero decisa. Mi ero comunque riservata un “angolo”: l’idea di creare un Premio intitolato a Nico Garrone mi piaceva, lo volevo fare. Poi serviva un nuovo ufficio stampa e ci vuole tempo prima che una persona nuova possa entrare appieno nei meccanismi del Festival, così, come una madre un po’ preoccupata di lasciare il proprio figlio nelle mani di qualcun altro, ho ripreso in mano la situazione.
È stato il Premio a farmi rimanere. Forse è una scusa, non so. Mi sono resa conto che l’idea del Premio è appagante e spero che diventi un punto di riferimento, un aiuto, un sostegno per i giovani e per la critica. Per capire, per parlarci di più fra gente di teatro, per cercare di sostenersi a vicenda invece che tentare di emergere singolarmente.

E oggi, dove sta andando e dove potrebbe andare il Festival?
Come tutti, ora qui occorre trovare finanziamenti e i modi attraverso cui ottenerli. Finora il Festival ha chiesto aiuto alle compagnie, abbassando i cachet ma garantendo l’ospitalità. Gli artisti vengono comunque volentieri, ma non è giusto. Questo sistema non funziona: le compagnie non guadagnano, arrivano semmai a pareggiare, mentre noi, che dovremmo risparmiare, comunque investiamo molti soldi. Quindi questo non è il sistema giusto, occorre trovare un altro modo. Credo che ci debba essere un sostegno prima di tutto proprio nel paese: penso che anche le persone si debbano chiedere se questo Festival debba continuare, occorre prendere questa decisione e poi provare a costruirlo insieme, anche trovando il modo per ottenere i fondi, guardandosi intorno, vedendo se le aziende del territorio rispondono, se sono interessate alla cultura. Si può fare, ci si prova.

ratelli Canavacciuolo, li abbiamo avuti tutti e due, hanno fatto alcune cose interessanti come una commedia o dramma di Sinisterra, Carmela e Paolino, che ha debuttato qui. Si abbinavano anche mostre d’arte, c’è stata una bellissima e divertentissima giornata di progetti per dolci, uno è stato realizzato e assagiato.

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