Intervista a Daniele Villa a cura di Camilla Toso
Teatro Sotterraneo ha aperto Primavera dei Teatri con Dies Irae_5 episodi intorno alla fine della specie, spettacolo che ha riscosso grande successo anche qui a Castrovillari, dove ogni anno si ripete il miracolo di questo incredibile Festival, che dopo undici anni di lavoro e costanza ha creato un pubblico affezionato e assiduo. Abbiamo incontrato Daniele Villa dramaturg e portavoce del gruppo per approfondire alcune tematiche del lavoro della compagnia fiorentina.
In questa breve intervista alcune riflessioni intorno ai punti cardine della poetica della compagnia, dai riferimenti bibliografici al processo creativo collettivo insieme a un parere sul senso di appartenenza alla cosiddetta “Generazione T”.
Il vostro nuovo lavoro ruota intorno all’origine della specie mentre quello precedente era basato sulla sua fine. Da dove siete partiti per questo lavoro su tematiche così opposte e complementari?
Queste due tematiche sono collegatissime, sia a livello nominale, che distributivo, che di linguaggi, sono un dittico a tutti gli effetti. Lo definiamo “Dittico sulla specie”: la prima parte era sull’estinzione, sull’esaurimento, quindi Dies Irae_5 episodi intorno alla fine della specie; la seconda, invece, sull’origine della specie. L’Origine delle specie_da Charles Darwin è un lavoro basato sull’opera più importante di Darwin – l’opera che ha fondato il darwinismo nel mondo – e su tutte le problematiche e i conflitti che ne conseguono. Un lavoro che si allarga al concetto di origine in senso più ampio, saccheggiando la scienza: dall’immaginario del laboratorio scientifico alle sperimentazioni sul subatomico, sul big-bang, fino ad una riflessione più poetica. Quello che ci interessava molto con Dies Irae, era di interrogarci sulla scomparsa, quindi di lavorare teatralmente facendo un discorso di tipo archeologico. Mentre cominciavamo a lavorare a Dies Irae abbiamo preso un accordo di collaborazione con il Metastasio – lo Stabile della Toscana – con il quale abbiamo scelto di lavorare su un’opera, e di confrontarci con un testo letterario o di altro tipo. Abbiamo scelto immediatamente l’origine delle specie di Darwin che ci permetteva di confrontarci e di fare un discorso ciclico creando quindi un dittico.
Oltre a Darwin quali sono i vostri riferimenti bibliografici?
I riferimenti sono sempre una domanda molto complessa specialmente per Dies Irae, composto da cinque episodi: nel primo episodio ci sono riferimenti all’arte visiva, mentre nel secondo il riferimento è chiaramente radiofonico, quindi a tutta una serie di progetti cui abbiamo partecipato, il terzo episodio riguarda la fotografia, quindi abbiamo per esempio analizzato Walter Benjamin.
Si tratta di una mappatura molto complessa. Per l‘Origine delle specie abbiamo saccheggiato tutta l’opera di Darwin con qualche deviazione in campo scientifico, con grande cautela, – insomma non siamo degli studiosi di fisica quantistica – però volevamo interrogarci sul big-bang come concetto di origine e sul rapporto con il cosmo e l’extraterrestre. Questo è stato uno degli spunti che abbiamo trovato nel campo scientifico con particolare riferimento a Darwin. Per Dies Irae, invece, abbiamo indagato tutta una serie di campi inerenti ai cinque episodi che ci sembravano parlare della fine, dell’esaurimento, della scomparsa. Quindi della specie umana come reperto archeologico e non come specie vivente.
Certamente la tematica scientifica è una delle centrali in questo periodo. Non solo per le giovani compagnie come voi ma anche per registi più affermati. Sono molti i lavori che esplorano il confine tra scienza ed arte…
È sicuramente una tensione con cui un artista è chiamato a confrontarsi. Ci sono due livelli: uno per il quale la scienza sta superando i limiti noti e riconoscibili della creatività umana – nel senso che ci si sta avvicinando veramente a creare la vita – questa è un tipo di tensione generatrice. L’altro livello riguarda le nostre ossessioni: siamo ossessionati nella scienza – ancor di più nell’immaginario collettivo – dall’idea dell’auto-annientamento. Questi sono due poli nei quali ci si muove continuamente, evidentemente gli artisti sentono il bisogno di confrontarcisi, attraverso la propria poetica e le proprie ossessioni. Il nostro gruppo ha sempre avuto una particolare predilezione per la morte e l’estinzione, evidentemente è uno dei punti di incontro dei cinque componenti della compagnia.
Le vostre creazioni sono sempre firmate come “produzione collettiva”. Come funziona quindi il vostro processo creativo, come si sviluppa il lavoro?
Il processo creativo funziona secondo un metodo. A noi non piace molto sederci su un metodo fisso, per cui abbiamo costruito negli anni un modo di lavorare insieme che viene messo in discussione e di cui cerchiamo di forzare i bordi. Noi selezioniamo un campo di indagine: in Dies Irae era la fine della specie in termini archeologici e non apocalittici. Una volta selezionato attuiamo una serie di pratiche che sono l’improvvisazione, la ripresa con il video, la documentazione teorica, l’ideazione a tavolino che poi viene verificata in sala. Questo produce nei mesi, nell’anno di lavorazione, una serie di materiali che poi vengono selezionati. Quando sono pronti i materiali ci si chiude in residenza, quindici-trenta giorni, anzi due tre residenze di quindici giorni di fila, ci si chiude in sala e si fa una messa a punto.
Ma non c’è mai qualcuno che dirige le improvvisazioni, che sceglie…
C’è sempre un dato individuale, nel senso che c’è una proposta che arriva dal singolo e che viene messa in condivisione e a cui si arriva tutti insieme. Però è un discorso decisamente instabile, difficilmente uno dirige gli altri: piuttosto uno ha un’intuizione che fa chiarezza su uno specifico obiettivo e magari rappresenta due minuti di spettacolo su sessanta. Altre volte invece uno pensa di essere sulla giusta strada e viene contestato dagli altri quattro. È un processo poco direttivo e molto orizzontale. È un lavoro lento e doloroso: spesso devi difendere le tue ragioni da attacchi forti e, spesso, cose in cui tu credevi magari non arrivano a sopravvivere. È un processo di selezione naturale, perciò si presume che sopravvivano le cose più adatte all’habitat in cui si muovono. Quindi quello che va in scena è ciò che più aderisce al gruppo, rappresenta e incarna il sentire del gruppo.
Tu stesso dici che a volte il processo produttivo può essere lento. È possibile far convivere il tempo creativo con i ritmi di produzione – che in questo periodo mi sembrano accelerati in maniera inverosimile soprattutto per le giovani compagnie?
Noi ci prendiamo il giusto tempo. Fa parte della professionalità e della capacità artigianale di un gruppo sapersi confrontare con le scadenze, sapersi muovere all’interno di meccanismi più grandi di noi, che riguardano anche altri gruppi in residenza insieme a noi, o i meccanismi delle direzioni dei festival che hanno una progettualità annuale e quindi devono far quadrare i conti e i tempi. Quindi, di solito, ci prendiamo il tempo che ci serve. Ad esempio il “dittico” nel suo complesso ha preso quasi due anni di lavoro. Abbiamo cominciato a lavorare a Dies Irae dandoci un anno e mezzo, poi è entrato in cantiere anche il progetto dell’Origine delle specie e abbiamo capito come far stare entrambi i prodotti nell’arco di due anni di tempo. Quindi siamo rientrati in quella scadenza ed era il tempo che reputavamo necessario.
Cinque episodi per cinque festival… Una scelta premeditata?
È stata una scelta a priori, noi volevamo lavorare sulla serialità. È una cosa che ci ossessiona molto perché è una delle qualità che ha adottato la specie umana per raccontarsi, già in tempi antichi. Noi non lavoriamo sulla narrazione, quindi scomporre è anche più facile. Restituire un immaginario per pezzi fa compiere allo spettatore un atto interpretativo importante nel momento in cui cerca un senso comune per i vari pezzi, in cui cerca un quadro di senso per rendere unitaria l’opera. Ovviamente è responsabilità nostra dare degli strumenti, degli elementi che diano un senso di unità. Il fatto che l’opera sia scomposta e “serializzabile” – sia attraversabile con linguaggi diversi, con poetiche e oggetti diversi – ci interessa moltissimo. Quindi è stata una scelta fatta a priori: volevamo un’opera che fosse divisa in cinque parti, prima ancora di sapere che cos’era ogni singola parte, noi sapevamo che erano cinque.
È stata una scelta che ha dato un risultato interessante a livello distributivo, perché abbiamo fatto un episodio in ogni festival, che equivale a un debutto in ogni festival. La gente veniva perché c’era un episodio, uno studio che non aveva visto. A noi piace presentare studi perché abbiamo un certo tipo di rapporto con il pubblico e facciamo anche un tipo di lavoro in cui è essenziale verificare quello che si sta facendo. Non li definiamo studi perché ti protegge o tutela o perché non è un lavoro finito. In realtà il primo episodio finisce, poi il secondo, poi il terzo… Quindi è più un pensiero sulla serialità e sulla distribuzione geografica della serialità. È un pensiero anche sui festival e sul fatto di appartenere ad un circuito di proposte e di progetti.
Come gruppo vi sentite appartenere alla cosiddetta “Generazione T”?
Ci sono dei segnali che danno l’idea di un movimento che si sta verificando, non in termini politologici, per cui un movimento coeso di valori e di obiettivi condivisi in cui tutti ci si muove, con gli stessi tempi e le stesse modalità, verso obiettivi condivisi. Per movimento intendo un movimento tellurico, cioè qualcosa che sta accadendo. Secondo me noi apparteniamo ad un tempo, e il tempo è fatto di accelerazioni e rallentamenti ed è un dato di fatto abbastanza riscontrabile che ci sia stata un’accelerazione negli ultimi anni, che alcuni attribuiscono ad un’iniezione di economie, che è stata temporanea e ridotta, ma che sicuramente ha contribuito. Però è anche un’accelerazione data da una serie di proposte, quei dieci/quindici gruppi che oggi puoi incontrare in Italia, non c’erano sette/otto anni fa. Ci sono state più accelerazioni che hanno dato vita ad un fenomeno. Ecco, noi apparteniamo a questo tempo e siamo dentro a questo fenomeno che si sta verificando.