Il Laboratorio Internazionale del Teatro 2012 ha chiamato a raccolta tanti giovani artisti; danzatori, attori, registi e autori che per una settimana hanno preso parte ad uno dei workshop dei cinque maestri di questa edizione. Abbiamo incontrato alcuni di loro, veri protagonisti del “campus” veneziano.
Elena Vanni. 36 anni. Salò/Roma. Attrice, autrice e regista. Laboratorio di drammaturgia condotto da Neil LaBute
Qual è lo spettacolo che ti ha cambiato la vita?
Sicuramente 32 rue Vandenbranden di Peeping Tom! Quando ho inviato alla Biennale Teatro la richiesta di adesione ai laboratori, la mia preferenza era rivolta al lavoro di Gabriela Carrizo, seguita da Neil LaBute. Alla fine, sono stata selezionata per prendere parte al wokshop del drammaturgo americano e ne sono molto contenta, anche se inizialmente speravo di trovarmi qui, a Venezia, per partecipare al workshop di Carrizo. Il ricordo di 32 rue Vandenbranden è comunque rimasto molto forte in me, tanto che mi è capitato anche di sognarlo. È un lavoro veramente bello sulla surrealtà, su ciò che ti immagini e su ciò che credi.
Costi /ricavi: un bilancio di questo laboratorio e in generale dei laboratori
Ho deciso di partecipare a questo laboratorio a Venezia perché era economico e non venivo da tanti anni in questa città. Non seguo più i seminari a pagamento, lo trovo assurdo, a meno che non siano esperienze a cui tengo molto. A un certo punto cambia la prospettiva e devi trovare la maniera di lavorare: se hai qualcosa da dire, da trasmettere, puoi decidere di condurre dei tuoi laboratori. A meno che non ci sia la possibilità di seguire un percorso continuativo con un maestro, un laboratorio di soli dieci giorni, persa la bellezza del vissuto, ti lascia un vuoto totale ed è difficilissimo prendere veramente del materiale da una simile esperienza.
C’è un’ulteriore, terribile, realtà da sottolineare: accade ultimamente che vengano organizzati dei seminari a pagamento in vista di una produzione. È una dicitura di sola facciata, alla fine verranno prese le solite persone: si tratta di una situazione che mi fa arrabbiare tantissimo. Serve solo per prendere delle idee dagli attori che lavorano gratuitamente, anzi, pagando! È ipocrisia. Mi sembra molto bello che un maestro trasmetta delle conoscenze a un allievo e che ci sia anche uno scambio lavorativo tra i due, ma se il laboratorio viene indicato come “seminario per nuova produzione”, questo diviene solo uno specchietto per allodole, un’operazione folle che si prende gioco della disperazione dell’attore disoccupato. Allo stesso tempo, è altrettanto folle chi sceglie di partecipare a quei workshop.
Che senso ha fare teatro in questi tempi di crisi?
Me lo sto chiedendo e in realtà questa domanda ha fortemente modificato anche il mio modo di lavorare, interrogandomi maggiormente sul pubblico. Penso all’ultimo lavoro fatto con la mia compagnia (A.R.E.M. Agenzia recupero eventi mancanti, ndr): qui abbiamo cercato di creare non uno spettacolo chiuso su se stesso ma piuttosto una scatola, un format che cambi a seconda del pubblico. Questo spettacolo ci ha fatto riflettere sulle persone che sarebbero venute a vederlo: il panorama teatrale offre un’infinità di titoli che nessuno ha visto o che vedrà, allora proviamo a proporre e presentare qualcosa di nuovo, magari di più interattivo.
Qual è il senso di tutto ciò? Me lo sto chiedendo e credo che la risposta venga dagli attori stessi e dal loro continuare a fare teatro.
Continua a leggere gli articoli del Laboratorio teorico/pratico di Critica teatrale a cura di Andrea Porcheddu sul sito della Biennale Teatro…