Una porzione di palco. Due pareti che s’incontrano a formare un angolo. Uno spazio bianco. Due uomini e due donne che lo abitano. Senza mai mostrare il volto, senza mai svelare il mistero. Possiamo vederli ma non riusciamo a riconoscerli. Possiamo guardarli ma non definirli. Abiti dai colori tenui. Movenze leggere. Parole poetiche. Immagini raffinate. Quello che di più grande l’uomo ha realizzato sulla terra di Silvia Costa, progetto finalista al Premio Scenario 2013, è un susseguirsi di quadri, è sfiorare l’amore, la felicità, il dolore, senza riuscire a delinearne i confini. In occasione della settima edizione di B.Motion Teatro, Silvia Costa ci racconta la nascita di questo primo studio, tra quotidianità e dimensione immaginativa.
«Parto sempre dallo spazio. In questo caso l’immagine iniziale è quella di un angolo, che porta in sé l’idea di collasso. Una visione prospettica, non simmetrica. Quando ho cominciato a pensare chi potesse abitare questo spazio, ho ragionato sull’incapacità di descrivere cose normali, semplici, e mi è venuta in mente la frase di Carver “È come se ci chiedessero di descrivere a un cieco che cos’è una cattedrale”, che è stata di spunto per entrare in una dimensione testuale, una forma dialogica, in un testo che diventa quasi estetico. Ho scritto molto, molte più parole di quelle che saranno nella versione finale. Ho cominciato a pensare a dei quadri, alle pagine di un libro, a personaggi molto connotati negli abiti ma con volti che non si vedono mai. Mi succede spesso, quando leggo, che i personaggi del libro mi si staglino nella mente senza che riesca a identificarne i volti. Vedere il viso è svelare un segreto, non mostrarlo è anche lasciare maggiore libertà d’interpretazione. In questo lavoro ci sono microstorie, elementi quotidiani che si mescolano a una dimensione immaginativa. È realismo dell’immaginazione. La sensazione che voglio comunicare è quella di un sogno che non si riesce a descrivere, che si sfalda tra le mani. Una creazione fragile, che scivola via quando cerchi di afferrarla. Per me è la celebrazione della cesura, la celebrazione della pausa, il lusso dell’accadere».
Dopo la fase di scrittura è arrivato il coinvolgimento degli altri attori?
“Sì, nei primi cinque minuti presentati alle selezioni del Premio Scenario eravamo in scena solo io e Giacomo Garaffoni. Ma volevo più caos, più confusione, e allora ho contattato Laura Dondoli, che lavora anche con la Socìetas Raffaello Sanzio, e Sergio Policicchio, che ha lavorato con i Motus, e ho cambiato la struttura dei testi che all’inizio erano dialogici, aggiungendo i personaggi. In due si creava una dinamica di coppia, e io, invece, volevo più combinazioni possibili.
La drammaturgia è già scritta o si compone durante il processo creativo?
È definita prima. Scrivo dettagliatamente tutto ciò che accade nei quadri, anche i movimenti, che sono ovviamente ipotesi. Il dialogo con gli altri è successivo, su una sorta di diario, cui partecipano tutti, con scritti ma anche immagini, e del quale mi piacerebbe, un giorno, fare una pubblicazione. La dimensione di discussione, quindi, si è creata dopo un momento di solitudine iniziale. E il vero confronto arriva con le prove.
“Bisognerebbe iniziare a fissare piuttosto che guardare” si legge nella presentazione di questo lavoro. È importante che lo sguardo sia orientato?
L’angolo deve essere un catalizzatore di energie. Voglio fissare un’immagine ed è necessario che il pubblico la guardi. Bisogna avere uno sguardo più attento e le immagini non devono solo essere belle, devono essere necessarie. È un lavoro di selezione più maturo degli inizi, di quando ho cominciato. Una volta mi era sufficiente fare qualcosa di estetico, adesso non mi basta più.
Tre le presenze venete nella Generazione Scenario 2013. Qual è il legame con il territorio? Cosa spinge a restare sul territorio?
Innanzitutto è una necessità organizzativa, torno qua perché so come muovermi. Ho il falegname e il fabbro di fiducia, chiamo mio zio per costruire i miei meccanismi. E poi c’è una comunità, trovo una forza, un sostegno. Se ho bisogno dello spazio, ad esempio, so che posso chiamare gli Anagoor, che mi hanno sempre dimostrato una grande disponibilità. O Carlo Mangolini (Vice Direttore Operaestate, Direttore Artistico B.Motion Teatro, ndr) che mi ha spesso concesso lo spazio del Garage Nardini. La dimensione della piccola città mi aiuta a essere concentrata, a lavorare bene. E sto qua perché è giusto partire dalla propria città, dalla propria provincia, creare la base di un buon lavoro per poi andare fuori.
Nella home del tuo sito, si parla di un percorso che non ha una definizione precisa, di un nomadismo della forma…
Ho il mio caos mentale e voglio mantenerlo. Mi piace cambiare, tenere più strade aperte, non cercare uno stile, voglio iniziare ogni volta da zero, non riconoscermi in niente. È la forma che mi sceglie, non sono io che scelgo la forma.
*La redazione di b-stage 2013 è composta da Elena Conti, Roberta Ferraresi, Rossella Porcheddu, Carlotta Tringali