Nata in un piccolo comune di montagna in provincia di Vicenza, Marta Dalla Via si è formata come attrice tra Bologna e Parigi. Le doti comiche e la capacità imitativa sono gli strumenti che maggiormente utilizza sul palco, spesso per parlare proprio della sua terra d’origine, quel Veneto da cui è andata via e a cui guarda con occhi nuovi.
Questa primavera, Marta Dalla Via è stata al Teatro Fondamenta Nuove di Venezia, per un progetto di residenza-spettacolo: una particolare combinazione fra messinscena, ricerca e incontro col pubblico che ha segnato la tenace attenzione al contemporaneo dello spazio lagunare e che ormai da anni ne distingue l’attività.
Il tuo viaggio narrativo sul Veneto è cominciato con Veneti Fair, proseguito con Piccolo mondo alpino e non ancora terminato, dato che stai lavorando assieme a tuo fratello Diego a un nuovo spettacolo che è ambientato sempre in questa terra. Perché hai deciso di raccontare la tua regione e a che punto è arrivato questo tuo percorso?
Non è stata una scelta. Non ho deciso un giorno di parlare di Veneto. È cominciato tutto con una risata, quando un amico ha confuso la rivista di moda con un periodico per veneti. In quel momento ho cominciato a pensare che una carrellata di personaggi veneti sarebbe stata divertente da portare in scena. Avevo voglia di usare le mie caratteristiche di attrice imitativa e comica, sapevo di poterle sfruttare bene e mi sono resa conto che, essendoci cresciuta, conoscevo benissimo la materia. Io credo che il luogo comune nord-est, un posto che nessuno sa bene cosa sia, un luogo che forse nemmeno esiste ma che è circondato da un notevole immaginario, sia un po’ come una città mitologica. Secondo me, la sua storia, soprattutto economico-sociale, vale la pena di essere studiata; e io possiedo alcuni strumenti, non ultimo la lingua e ovviamente l’esperienza. In Veneti Fair ho lavorato con la regista Angela Malfitano partendo esclusivamente da improvvisazioni e canovacci, scrivendo poco e solo in un secondo momento. Piccolo mondo alpino invece ha avuto un tempo di scrittura molto lento, fatto a quattro mani con Diego, mio fratello. Lo spettacolo che ne è nato è frutto di continuo confronto e talvolta dissenso tra diverse sensibilità ed è quindi più complesso e meno scanzonato rispetto a Veneti Fair. Il primo spettacolo era una serie di piccoli ritratti sociali, il secondo invece lo definirei un ritratto ambientale; il terzo, di cui ancora non posso parlare, è un punto di vista sul rapporto con l’economia, tema cruciale e identitario della nostra regione.
Procediamo a ritroso nel tempo, partendo dal presente. Al momento, stai anche costruendo uno spettacolo a partire dal testo di Tiziano Scarpa La cinghiala di Jesolo, che debutterà il 23 marzo in anteprima a Siena. La residenza al Teatro Fondamenta Nuove si concentra proprio su questo lavoro.
Avevo letto questo racconto di Scarpa e mi era piaciuto molto. Lo definisco uno Scarpa prima maniera, metropolitano, sexy e divertente. È la storia di un ragazzo appena uscito dal riformatorio che si ritrova a lavorare in una colonia per bambini a Jesolo, perennemente controllato da una figura imponente: la Cinghiala, appunto. La sua vicenda misteriosa si scopre col passare dei giorni che trascorre in questo luogo chiuso, con regole e dimensioni a misura di bambino. Credo mi abbiano attratto più cose in questo testo: la voglia di confrontarmi con un altro tipo di scrittura, non autobiografica, e la possibilità, allo stesso tempo, di ritrovare alcuni punti in comune con quello che ho fatto prima; c’è il Veneto ovviamente, ma soprattutto c’è un posto ristretto e circoscritto, legato alla stagionalità, com’era in Piccolo mondo alpino.
Hai definito Piccolo mondo alpino, spettacolo che porti in scena qui al Fondamenta Nuove, il ritratto di un luogo, di un ambiente.
Siamo tra Vicenza e il Trentino, in una piccola località di montagna in cui si parla il dialetto tipico del vicentino nord. Una zona quindi completamente delimitata, riconoscibile soprattutto per chi sa bene le mille sfumature linguistiche che in questa regione, come in gran parte d’Italia, variano con lo spostarsi di pochissimi chilometri. Siamo in un posto in cui teoricamente il rapporto tra uomo e natura è simbiotico, vitale e armonioso. Ma siamo anche in una località turistica in cui il tempo è scandito dalle stagioni e dai fuori-stagione – ed è proprio questa ciclicità che mi interessa. La stagione, sciistica o estiva che sia, è una messa in scena: è il momento in cui tutti recitano la parte del montanaro felice, con l’abito tipico, il cibo locale, la cortesia timida e la proverbiale riservatezza. Tutto viene fatto per l’occhio dello spettatore e, nel momento in cui la stagione finisce, le giornate perdono di senso. In questi posti, il rapporto con il turismo è di amore e odio, di dipendenza e di repulsione. Mi sono sempre interrogata sul perché non si sfruttino i fuori-stagione per migliorare questi luoghi e la vita di chi li abita, perché non si faccia qualcosa che sia indipendente dall’occhio dell’esterno. È un dato di fatto, però, che nulla si fa: semplicemente si aspetta che il tempo passi e arrivi la prossima stagione, senza riuscire mai a costruirsi davvero un’autonomia, un proprio senso di esistere. È stato per me illuminante il saggio Tristi montagne di Christian Arnoldi, che raccoglie molti fatti di cronaca avvenuti in tutto l’arco alpino: dall’incesto all’atto violento, dal diffuso abuso alcolico al suicidio. Arnoldi racconta di un senso di colpa diffuso tra chi vive in posti belli e questa a me sembra una chiave di lettura molto interessante. Tutti ti dicono che vivi in un paradiso, che è dunque ovvio che tu sia felice, eppure tu non stai bene e non ti senti in diritto di esprimere questo malessere. Volevo raccontare questa sensazione di ricatto della bellezza e dare voce a una difficoltà che si rende invisibile con l’arrivo della neve e dei turisti, ma che scandisce molta vita alpina.
Facciamo un passo indietro e torniamo a Veneti Fair, in cui porti in scena tanti personaggi, prototipi, luoghi comuni sul Veneto spesso chiuso, ignorante, razzista. Come reagisce il pubblico a teatro? Quali le differenze tra risate di veneti e non?
Tutti ridono e poi si sviluppa una dinamica che porta lo spettatore a discostarsi. Al sud pensano che i contenuti riguardino solo il nord, al nord pensano che si parli solo del Veneto, in Veneto si circoscrive la critica alla provincia di Vicenza e a Vicenza si additano i vicentini del nord. Spesso mi si chiede perché abbia scelto di usare il mio dialetto e io rispondo che è stata una decisione assolutamente naturale, conseguente ai miei intenti: volevo portare lo spettatore a vedere una parte della mia casa, una parte del posto che mi identifica, pur con tutte le sue contraddizioni. Certo i veneti ridono un po’ di più, perché la comprensione è più immediata, ma ho sfumato la lingua in modo da renderla intellegibile a tutti.
Approfondiamo questo aspetto dell’identificazione. Usare il prototipo e il pregiudizio consente al pubblico di non riconoscersi compiutamente, lo mette al sicuro, lo salva in partenza?
Nessuno vuole riconoscersi del tutto nei personaggi raccontati e mi rendo conto che questo spettacolo consenta di non farlo, proprio perché uso delle maschere, dei tipi. In fondo, questo lavoro parla dei veneti solo per caso, solo perché io sono veneta e conosco questo dialetto. Non l’ho costruito per insegnare qualcosa ai veneti, ma pensando alle mie capacità narrative e sfruttandole per raccontare esperienze che mi appartengono. Credo che, attraverso la risata, attraverso il cabaret, forse non si colgono a pieno la gravità e le sfumature drammatiche, ma qualcosa viene instillato, senza che, sul momento, lo spettatore se ne accorga. Ho voluto raccontare una storia, costruire dei personaggi e questo comporta necessariamente un punto di vista anche morale sull’oggetto raccontato.
Intervista a cura di Margherita Gallo