Recensione a Zio Vanja – Andrei Končalovsky e il Teatro Mossovet di Mosca
Le scuole di recitazione divengono dei reality show, il cinema ed il teatro scelgono i cast guardando la televisione, le ristrettezze economiche obbligano a ridurre sempre più i giorni di prova e le nuove compagnie crescono una generazione di magnifici e muti performer. In un simile panorama culturale non stupisce che, di fronte all’eccelsa dimostrazione di bravura di cui danno prova gli attori del Teatro Mossovet di Mosca, il pubblico italiano scoppi in un lungo e commosso applauso. Nonostante la diversità linguistica, gli spettatori dimostrano di saper ancora riconoscere ed apprezzare dei veri ed abilissimi attori – di cui sentivano probabilmente la mancanza. E per il suo Zio Vanja, Andrei Končalovsky sceglie un cast davvero d’eccellenza, in grado di dare corpo e voce ai personaggi “grigi e filistei” di Checov, riuscendo a costruire delle figure a tutto tondo, in grado di muoversi nel sottile limbo tra riso e pianto insito nella tragicommedia scritta dal grande autore russo, che troppo spesso viene letta e messa in scena solo nei suoi aspetti più drammatici.
Končalovsky guarda all’opera con un sorriso amaro, affidando all’incredibile Pavel Derevyanko il ruolo di uno Zio Vanja non vecchio e stanco, bensì un uomo sui quarant’anni in piena crisi di mezza età, che passa da momenti di altissima euforia ad altri di profonda depressione; un bambinone goffo nei suoi tentativi di seduzione nei confronti della bella Elena (un’impeccabile Natalia Vdovina) e parossistico nella sua ribellione dal sapore tardo-adolescenziale del finale.
Al contrario, la nipote Sonja trattiene fino all’ultimo le sue emozioni – percepibili solo da piccoli dettagli espressivi: a rendere questo difficile ruolo una sublime Yulia Vysotskaya, semplicemente eccezionale nella delicatezza con cui sa restituire dignità, tenerezza e profondità a un personaggio che potrebbe, invece, facilmente diventare patetico. Da brividi il momento in cui si finge sorridente e affabile, trattenendo le lacrime per il dolore del rifiuto dell’affascinante medico Astrov, interpretato con disinvoltura – anche grazie al phisique du role – e grande abilità da Alexander Domoharov.
Ma, scriveva Stanislavskij, non a caso grande regista di Checov: «non esistono parti minori, ma solo attori minori». Anche i ruoli secondari sono affidati ad attori di un livello tale da non poter certo non annoverarli. Il ruolo del vecchio, annoiato e noioso luminare è affidato ad Alexander Filippenko: il suo professore è antipatico, petulante, irrispettoso e sbruffone ma non appiattito nella totale negatività. Alexander Bobrovski riesce a divertire ed intenerire rendendo il buffo personaggio di Teleghin macchiettistico ma non per questo finto, sempre sul limite del grottesco senza mai scadervi. Ulteriore elemento comico della pièce è la balia Marina, brontolona e affettuosa, interpretata da Larissa Kuznetsova, che dimostra di saper giocare con il ruolo affidatole, non passando certo inosservata. Infine la madre di Vanja, che incute timore e rispetto, è resa perfettamente dall’imperturbabile Irina Kartasceva. Chiude il cast – e lo spettacolo – sulla sua altalena la presenza candida, elegante e silente del fantasma – o del ricordo – della madre di Sonja e sorella di Vanja (Olga Suchareva).
«Cechov è una Sinfonia. La sinfonia di vita.» scrive Končalovsky, dimostrando di saperla dirigere questa sinfonia: in scena porta la vita perché i personaggi sono veri, profondi, credibili. È la cara, vecchia, magia del teatro a tornare in vita grazie a questi attori e a una regia che legge, comprende e rende comprensibile la complessità e la bellezza del capolavoro checoviano. Una messa in scena così attenta e approfondita che gli si perdonano facilmente le incursioni video didascaliche e poco funzionali o la scelta dei cambi di scena a vista, in cui il palco viene invaso da uno stuolo di tecnici, che risulta un po’ superflua.
Se la netta divisione in scene sottolineata dal buio, in un primo momento, può risultare fastidiosa – perché interrompe la narrazione e congela quel mondo in cui si stava credendo completamente – forse protegge il pubblico, ricreando la giusta distanza. Obbligandolo, infatti, a distaccarsi a tratti dalla vicenda, gli evita un coinvolgimento emotivo che avrebbe potuto davvero sfinirlo.
Perché in scena è la vita, ma pur sempre filtrata dal teatro.
Visto al Teatro Goldoni di Venezia
Silvia Gatto