Recensione a John Gabriel Borkman – Thomas Ostermeier
La densità della parola di Henrik Ibsen è pienamente intercettata nella struttura e nel ritmo dall’allestimento di Thomas Ostermeier, in cui spiccano celebri attori tedeschi fra cui Angela Winkler e Josef Bierbichler. Tanto nel testo, quanto nello spettacolo, è la parola a creare personaggi e ambienti, a stabilire relazioni: mai evocativa né fluida, si presenta in scena in tutta la sua solidità, protagonista assoluta della vicenda. Di più, la rarefazione delle azioni, i movimenti minimali e il grande spazio in cui si muove il testo, creano una corrispondenza duplice fra la scrittura di Ibsen e il lavoro del regista tedesco: il carattere “espositivo” di questo allestimento si può considerare anche come una presa di posizione nettissima nei confronti della vicenda rappresentata. La scena svuotata, i movimenti ridotti all’osso, la fissità espressiva, il temperamento “esecutivo” dei personaggi, danno luogo proprio a quello di cui i Borkman hanno più paura, cioè il fatto di essere mostrati. Intrappolati fra le mura di casa e quelle, ben più invalicabili, della loro mente, un po’ per obbligo e un po’ per scelta, i Borkman affrontano una sorta di esilio, da quando è uscito di prigione John Gabriel, ex banchiere condannato per una truffa che ha provocato il tracollo dei suoi clienti. Gunhild, sua moglie, e la sorella Ella, che un tempo si contesero l’amore per l’uomo, ora si trovano a lottare per quello di Erhart, figlio dei Borkman. La vergogna e l’ossessione di rivalsa sono la danza di morte – anche suonata al pianoforte, a un certo punto – che coinvolge tutti e tre i personaggi: le sorelle sorprese da una mania quasi edipica per il figlio-nipote, John Gabriel esasperato nella possibilità di un riscatto sociale. Ed è proprio contro tutto questo che si muove il raffinato allestimento di Ostermeier, esponendo in una regia praticamente “esecutiva” le debolezze dei suoi protagonisti, in una dilatazione verbale impegnativa (che va riaddomesticata, dopo tanti sketch mordiefuggi cinematografici e televisivi) e in un delicatissimo lavoro sulla modulazione delle distanze fra i personaggi.
Il ritorno sistematico del regista tedesco, affermatosi giovanissimo fra i maestri del teatro internazionale, alla drammaturgia ibseniana può essere indice di un pericoloso avvicinamento del tutto attuale a quella società dedita rovinosamente all’apparenza, ritratta dall’autore norvegese quasi centocinquant’anni fa. Lo spettacolo è immerso in arcipelaghi di nuvole spesse, quasi nebbie solide, sempre sullo sfondo e che, di frequente, invadono la scena per arrivare, addirittura, a divorare le prime file della platea. È un’inconsistenza minacciosa che mette in relazione la borghesia delirante di fine Ottocento con gli eccessi attuali, ed è davvero inquietante, infine, uscire dal teatro con un dubbio che confonde spettacolo e realtà. Ostermeier, in tutta la sua cura per la parola ibseniana, ha disegnato un Borkman sospeso fra un senso di umanità che è possibile comprendere (e, forse, invidiare) e i crimini – sociali, personali, ideali – ingiustificabili che, mano a mano, emergono nello sviluppo della vicenda, in una spirale di violenza ed egoismo che sembra inarrestabile e si concluderà solo con la sua morte. Viene da interrogarsi sulla possibilità che il protagonista dello spettacolo, per la maggior parte del tempo fuori scena, sia davvero un criminale da denunciare o un piccolo uomo coraggioso che ha tentato la fortuna. Immedesimazione e critica, comprensione e riscatto: un dondolarsi atroce e senza risoluzione fra gli opposti (e tutto il grigio che vi esiste in mezzo) è la provocazione di questo spettacolo che, spostando continuamente il limite del senso di giustizia, mostra come una certa Totentanz tutta occidentale fra denaro, delirio di onnipotenza e vocazione distruttiva possa continuare, dopo più di un secolo, a risuonare con forza per le strade d’Europa e non solo.
Visto a VIE – Scena Contemporanea Festival, Modena
Roberta Ferraresi