Recensione di Histoire du Soldat
Assistere ad un debutto è sempre emozionante, ancor più quando si tratta di un gruppo di giovani studenti che si cimenta per la prima volta davanti ad un pubblico di bambini. L´Histoire du Soldat è stata messa in scena dagli studenti del Laboratorio di Regia di Monique Arnaud della Facoltà di Design e Arti dello IUAV di Venezia, guidati dal regista Stefano Monti. Partendo dalle musiche di Stravinskij e riducendo il testo dal libretto di Charles Ferdinand Ramuz, questo giovane gruppo ha affrontato l´opera ponendosi di fronte due problemi: come rendere lo spettacolo fruibile per un pubblico in tenera età e quale chiave di lettura scegliere. Entrambi i quesiti hanno trovato risposta in un’unica soluzione, allo stesso tempo semplice e complessa. Monique Arnaud, infatti, insegna da anni Teatro Noh giapponese e ha guidato i ragazzi attraverso un percorso stilistico e formativo ponendoli di fronte all’utilizzo di una pratica asiatica per l’interpretazione di un’opera di stampo occidentale. La favola è quella di Joseph, soldato in congedo, che incontra il diavolo sotto mentite spoglie e con lui stringe un patto che gli costerà tre anni della sua vita, gli affetti e la passione per la musica. Scambiando il suo violino con un libro veggente egli diviene ricco, ma capisce ben presto che tutto ciò che vuole è tornare ad essere quello che era. In scena i personaggi principali sono tre: il Soldato (Massimiliano Sbarsi), il Narratore (Gianluca Arnò), il Diavolo (Luca Nucera), sostenuti da un folto coro di figuranti e dagli strumentisti dell’orchestra della Fenice diretta da Zhang Jiemin. L’impianto scenico è semplice, in palco ci sono gli attori, e nessun elemento scenografico se non, appunto, un coro che come unico corpo-macchina agisce e si trasforma in esercito, bosco, città, palazzo reale. In un secondo piano rialzato sta un altro coro, questa volta invisibile, che muove degli elementi semplici, come enormi fiches, carte, maschere, stivali che, con la giusta illuminazione, sembrano animarsi da soli; il riferimento è il Teatro Nero di Praga ma la tecnica è leggermente diversa, niente luce a ultravioletti ma piuttosto un taglio di luce bianca entro cui far agire gli oggetti.
Il risultato è interessante, il gioco funziona e gli elementi caratteristici del Teatro Noh, ad esempio il camaleontico ventaglio che diviene di volta in volta violino, flauto, libro, farfalla, sono perfetti per stimolare la fervida fantasia del piccolo pubblico, entusiasmato anche dal trucco forte e dall’espressività degli attori. Affascinante e sicuramente complesso è stato il lavoro del coro, forse un po’ scoordinato ma molto espressivo per essere un gruppo di non-attori che lavora per la prima volta insieme. I costumi forse sono l’unica pecca in questo lavoro, quelli del coro risultano troppo carichi e ingombranti. Buona la performance degli attori – professionisti chiamati apposta per l’occasione – e del cantante/narratore, da segnalare la forte presenza poetica della ballerina Agnese Cesari, unica studentessa ad avere una parte da solista.
Visto al Teatro Malibran, Venezia
Camilla Toso