Recensione a Sade: Opus contra naturam – regia di Enrico Frattaroli
L’uomo, per natura, desidera soddisfare delle necessità, tendendo ad essere egoista, ben lungi dall’istinto di occuparsi altruisticamente del prossimo. Nel mondo animale ne è una dimostrazione il cerchio della vita: lo stesso agnello ammetterebbe che il lupo deve mangiarlo, è naturale così come lo è la crudeltà e il piacere che se ne prova compiendola.
Questi alcuni tra i concetti che Enrico Frattaroli ripropone con SADE: OPUS CONTRA NATURAM, Voyage en Italie, Padova. Tramite estratti dall’opera del Marchese de Sade, il regista propone un dialogo filosofico fuso ad un rituale di erotica e sadica tortura che ha al centro proprio l’uomo e i suoi desideri naturali, nella sua condizione di essere che non ha facoltà di autodeterminarsi, ma che è in balia di un’esistenza che si compie da sé, seguendo equilibri incomprensibili.
Il pubblico è coinvolto fin dal suo ingresso a questo rito, accolto da nude ancelle che sostengono candelabri e osservano imperturbabili gli spettatori cui è stato concesso di assistere. Dopo un primo e crudele assaggio di chi è Sade, dimostrato con il rapido incontro e truce assassinio di una fanciulla, viene portato in scena il principale oggetto e vittima della serata: un prete (Galliano Mariani). A dialogare tra loro e col pubblico, illustrando le teorie libertine – a volte con grande ironia – , sono i padroni di casa: i due filosofi (Franco Mazzi e Anna Cianca), che fungono da testimoni e spettatori a loro volta del rituale. Le discussioni e le azioni che seguono, prendono vita dal confronto tra le opposte ideologie di prete e filosofi. Il marchese – interpretato da Frattaroli – con tremenda volontà di dissacrare e ferire, soddisferà inesorabilmente ogni suo erotico, masochistico e sadico desiderio.
Davanti agli occhi dello spettatore vengono compiuti sia atti di indolore soddisfazione erotica (tramite i sensi di olfatto e gusto), e atti di intensa violenza condensati in immagini di innegabile impatto, attuate utilizzando strumenti di tortura o semplicemente mani e denti. Erotismo inflitto, agito su vittime impotenti o sulle consenzienti collaboratrici all’orgia, compiuti con cura e gustati dal marchese con pesato vigore. Tali azioni e dissertazioni appaiono capricci di nobili personaggi e del loro ospite che partecipa praticamente al loro filosofeggiare, ma senza mai esprimersi a parole. Agisce silenziosamente, concedendo solo un’aspra risata di compianto e disprezzo per l’umanità che lui, in quel momento, si ritrova letteralmente tra le mani.
Il Bastione Alicorno risponde perfettamente alla creazione di un’atmosfera da setta orgiastica, una cantina degli orrori che sembra abituata ad ospitare intime torture. Lo spazio è sfruttato totalmente (dal balcone, ai tre corridoi) scenografia composta dai numerosi candelabri e dagli oggetti di tortura. Il suono, frutto delle composizioni in midi-device di Enrico Venturini, è una componente suggestiva fondamentale che scandisce i ritmi rituali e puntualmente accompagna la dinamica delle tensioni che si animano in scena.
È innegabile la volontà di sconvolgere lo spettatore, ogni tortura è agita con intento di raggiungere la verosimiglianza, senza allusioni o astrazioni. Il pubblico è conseguentemente scosso (alcuni spettatori abbandonano la sala a differenti ondate) o incredulo, forse alla ricerca di una distanza dalle scene cui assiste, cui non vuol credere, ma si ritrova immobile e impotente testimone. Unica ribellione, la possibilità – appunto – di andarsene.
A termine dal rituale-spettacolo, il pubblico rimanente si ritrova stranito e combattuto: si chiede se dovrebbe applaudire a termine di una tortura culminata in beffante omicidio e quindi se esprimere gratitudine, ammirazione e approvazione a termine di tali e forti atrocità. Ma, dopotutto, chi – meno empatico e sensibile – vede principalmente il compimento di una spettacolo teatrale, non può non riconoscere bravura e preparazione a bravi professionisti. Ecco l’applauso.
Visto al Bastione Alicorno, Padova
Agnese Bellato