Recensione de l’ Odissea di Cesar Brie e il Teatro de Los Andes
«Dopo l’incendio di Troia/ognuno di noi prese la sua strada./Io lasciai la Bolivia/attraversai Perù e Ecquador./Dalla Colombia, in un gommone/sbarcammo in Guatemala. Eravamo in quaranta. Navigammo a lungo/l’angoscia nel petto/fino ad un golfo/chiamato Cariddi»
A dieci anni dall’Iliade torna in Italia il Teatro de Los Andes, anche questa volta con un poema omerico: l‘Odissea. Cesar Brie sfida ancora un colosso, affronta uno dei testi portanti della cultura occidentale, e lo fa a modo suo: trasportando l’Europa in America Latina per poi farla tornare ritradotta, riraccontata, risvegliata. Uno sguardo sull’Occidente attraverso i suoi miti, trasportati nella realtà del Sud – uno dei tanti sud del mondo – per raccontare una verità lontana con parole e parabole vicine, per far scoprire attraverso lo specchio, la patina d’argento ingiallita dietro il quale si riflette la società occidentale. L’Iliade, a suo tempo, fece scalpore: per la forza, l’energia, la violenza. Era una storia di guerra e dentro c’erano tutte le guerre degli ultimi trent’anni. L’Odissea è una storia di viaggi, di passioni, lotte, naufragi, attese; una storia di intrecci, smarrimenti, storia di storie, di identità, di invasioni e assedi. Questa volta Brie decide di non lavorare sulla violenza, che di violenza ce n’è già abbastanza, soprattutto nel suo Paese. Il testo è diverso, ricco di storie ed incontri, ma il procedimento dell’autore rimane lo stesso: traslare nel contemporaneo le vicende narrate dal mito, quasi a voler affermare l’universalità temporale che le caratterizza. Questa è la prima chiave di lettura: ecco allora che il viaggio di Ulisse si trasforma nell’epopea dei Boliviani che scappano verso l’America, la maga Circe veste i colori del McDonald’s, usa Coca Cola e cibo spazzatura per trasformare gli uomini in maiali, e Polifemo è il capo della “Mara Salva Trucha” una banda di criminali che derubano e violentano i migranti in viaggio verso il Messico.
È chiara la scelta di regia: la commistione di tragedia e commedia, realtà contemporanea e mito, parodia e dramma, ironia e satira. Meno chiara risulta, sotto alcuni aspetti, la realizzazione. Gli attori sono straordinari dal punto di vista fisico: acrobati, danzatori e musicisti, incredibili trasformisti (sono solo in nove e fanno più di quattro personaggi a testa!) sempre attenti a tenere una poetica del corpo in linea con l’opera. Ma è la recitazione, forse l’uso della voce, ricercato e probabilmente voluto, che già dalle prime battute risulta troppo caricato, con un tono declamato che suonerebbe strano se non uscisse dalla bocca di uno degli dei, oppure stona in alcuni casi, come nell’episodio di Nausicaa – la bella e giovane ninfa figlia del re dei Feaci – che nella parodia sembra quasi fare il verso a Luciana Litizzetto. Sembra perdersi Brie, proprio nella ricerca della commedia e della parodia; facendo riferimento al Teatro Campesiño, alcune scene partono dai lazzi della commedia dell’arte per poi sfociare in un gran baccano e confusione che disorientano lo spettatore, altre scene parodiche, invece sembrano ammiccare complici e cercare l’applauso, quando ad esempio Penelope interroga Ulisse, tra le tante domande spunta: “capitale dell’Italia? Arcore! Anzi Roma”.
Riconosciamo il Brie de Il cielo degli altri, nell’Odissea del viaggio, nella poesia del naufragio, della nostalgia di casa, nel risvolto politico delle storie dei migranti/immigrati riportate sul palco. Ma anche nell’ironia velata, che percorre scene come quella in cui i Minuteman – volontari americani che sorvegliano la frontiera tra Messico e Stati Uniti -si fanno fotografare con un fuggiasco, prima di abbandonarlo nel deserto; scena che fa ridere il pubblico per l’assurdità dei personaggi, un riso che diviene amaro e lascia un gusto rancido in bocca, perché quello che vediamo, accade veramente ogni giorno dall’altra parte del globo. Ritroviamo la poesia d’immagini del Teatro de Los Andes nella geniale scenografia di Gonzalo Callejas: una moltitudine di totoras, canne del lago Titicaca, che appese alla graticcia si aprono e si chiudono, ruotano e si spostano, creando boschi, recinti, mura, porticati e palazzi; e la ritroviamo anche nei costumi dai colori caldi di Giancarlo Gentilucci, semplici e senza tempo. Le musiche dal vivo composte da Pablo Brie e Lucas Achirico, richiamano le melodie popolari sud americane, creano spazio e personaggi colorando l’atmosfera.
Un lavoro ricco e pieno di vitalità, che a volte può non convincere troppo, ma che vale assolutamente la pena di vedere.
Visto al Teatro Astra, Vicenza