Recensione a INRI di Teatrofficina Zerogrammi
All’uscita da teatro afferro l’opinione di uno spettatore: «C’era molto della Bausch nello spettacolo». Colgo questa affermazione innocua per un piccolo commento: a volte, l’insistenza nel voler dare un pedigree nobiliare a tutto ciò che si vede a teatro, pena la qualità della rappresentazione, è esasperante. Si rischia di trasformarsi in giudici di una gara per cani. Se lo spettatore non riesce ad etichettare tutto quello che vede va in tilt, come un commesso quando si accorge che non ci sono i prezzi sugli scaffali della pasta. Forse è un problema del pubblico italiano, con il suo ergersi sulla poltrona dello spettatore come un maestrino che aspetta di dare un voto allo spettacolo. Con la sua smania di costruire alberi teatral-genealogici per concedere il sigillo di legittimità a quello che sta guardando.
A parer mio, il Teatrofficina Zerogrammi se la cava anche da solo. Con questo non voglio negare l’importanza di ricerche e contaminazioni che sono alla base di un lavoro oculato, ma spostare l’attenzione sul contrassegno dello spettacolo piuttosto che su eventuali parentele artistiche. La compagnia è un giovane duo maschile, Stefano Mazzotta ed Emanuele Sciannamea, entrambi diplomati alla Paolo Grassi di Milano, il lavoro che presentano è INRI, coprodotto dal Festival Oriente Occidente di Rovereto. Premesse interessanti, messinscena soddisfacente. In un’oretta di spettacolo i due danzatori agiscono en travesti, abbigliati da comari di chiesa. La contraddizione tra il corpo maschile e le sottane nere è sempre evidente, mai mascherata. Si punta l’indice sul rito: non su quello del sacerdote, ma sulla liturgia ‘minore’ di chi ascolta e riceve la messa. Il dito è puntato più con il polpastrello che con l’unghia: è una parodia affettuosa e cadenzata, un gioco di atteggiamenti e travestimenti che ripercorre la liturgia del fedele e le figure dell’iconologia cattolica. La coppia è ben calibrata nonostante le diverse corporeità, e lo si nota quando, piuttosto che concentrarsi sull’una o sull’altra, l’occhio va ad appoggiarsi nello spazio che le separa, sorvegliandole entrambe. Le due comari si scrutano tenendosi strette le borse, si fanno qualche dispettuccio, pregano, rovesciano soldi nella cassetta delle offerte, fanno schioccare la lingua quando ricevono l’ostia. Sono due devote sgangherate del Cristo in croce sull’altare (che non si vede mai). Buono il ritmo, interessante la meccanica coreografica, l’unica pecca si riscontra nell’accompagnamento sonoro: efficaci i rumori di sottofondo, così come i belati delle pecorelle nella stalla, ma forse troppi momenti sono lasciati al silenzio.
Il soggetto è rischioso: lo stereotipo del fedele cattolico è uno dei punti nevralgici dell’italianità. Ma i due danzatori riescono ad essere pungenti senza offendere, forse proprio in virtù di quella tenerezza di cui rivestono le loro figure. Strappando un sorriso, forse, anche a chi il giorno dopo andrà ad ascoltare la messa con la borsa stretta tra le mani, versando offerte come gesto scaramantico e ingurgitando l’ostia con qualche difficoltà.
Visto a Teatro Fondamenta Nuove, Venezia
Agnese Cesari