Recensione di Ivanov – Katona József Szinház
Ivanov – di Anton Cechov – è una storia sui pettegolezzi nei paesi di provincia, sull’influenza dell’opinione collettiva, sulla noia esistenziale della vita di campagna ed è una storia sulle relazioni: d’amore, d’amicizia, di comodo e di potere. Ma Ivanov è soprattutto la storia dell’amore scolorito e dimenticato, dell’enegia vitale precocemente esauritasi in un vuoto interiore che il protagonista – Ivanov appunto – porta dentro di sé.
Un vuoto che viene amplificato dall’apprendere che la malattia della moglie – Anna Petrovna – la porterà certamente alla morte. Ma nell’animo di Ivanov non c’è pietà per lei, ne amore o tenerezza: solo un pesante buio circondato da assordanti pensieri di frustrazione. Non lo salva nemmeno la vitalità di un nuovo potenziale amore: la giovane Sasha, che arriva come una chiara e fresca brezza nella grigia e ferma passività di Ivanov. È una relazione che aggiunge solamente un’ulteriore onta alla sua figura che – impotente – non riesce a non risultare insensibile nei confronti della moglie morente. La dimensione di fallimento esistenziale inchioda il protagonista all’apatia e infine lo porta alla morte.
La complessità del testo cechoviano rende difficile ogni ipotesi di riadattamento, ma l’attuazione che ne ha compiuto il Katona József Szinház è sorprendentemente efficace ed attuale. Diretto da Tamás Ascher, lo spettacolo è da quattro anni parte del repertorio della compagnia ungherese che, in seguito al successo riscosso con la tournée mondiale, riporta Ivanov in Italia, stavolta facendo tappa a Parma, ospitato dalla Fondazione Teatro Due.
Le scene di Zsolt Khell propongono lo squallore dell’Ungheria socialista degli anni ’70, ricreando – con accurato realismo – un unico ambiente duttile che evoca l’atmosfera di una grigia dimensione provinciale: piastrelle, finestre, luci neon e mobilia varia formano una scena molto concreta che viene modificata e vissuta con naturalezza. La musica di Márton Kovács, le luci di Tamás Bányai e i costumi di Györgyi Szakács contribuiscono a rendere la crudezza e lo squallore spesso anche comico della vicenda.
Lo spettacolo ha vitalità e naturalezza sorprendenti e lo dimostra la rapidità con la quale scorrono leggere per tutta la sua durata (tre ore). La forza dell’espressività della compagnia è data anche dall’alto grado di attenzione del pubblico che è totalmente catturato dagli avvenimenti della scena nonostante il potenziale ostacolo della lingua straniera: il testo è recitato in ungherese (la traduzione dal russo è di Antal Páál) e la drammaturgia è frutto del lavoro di Géza Fodor e Ildikó Gáspár. Naturalmente il pubblico è aiutato nella comprensione dai sopratitoli in italiano.
La proposta registica si appoggia ad una recitazione viva grazie alla quale ogni parola del testo nasce rinnovata, con una presa sulla realtà che non ha tempo e che rende denso di significato e concretezza ogni gesto e sguardo. Personaggi studiati e costruiti con cura, comici e al contempo capaci di una cupa e tremenda potenza. La recitazione è naturalistica, diretta e si accompagna ad una ricca gestualità che è risultato di una lunga esperienza e di una formazione completa. La compagnia dimostra un alto livello di preparazione con un cast compatto, la cui bravura emerge con energia, naturalezza, immediatezza e grande padronanza del corpo. In particolare si fanno notare: Ernö Fekete (Ivanov), Eszter Ónodi (Anna Petrovna), Adél Jordán (Sasha) e Ervin Nagy (Borkin) nei panni dei principali protagonisti.
Con Ivanov vediamo confermata la superiorità della concezione di teatro che si ha oltre i confini italiani: un’idea di teatro che nel resto d’Europa è vera vocazione artistica e condivisa volontà di proporre lavori di un elevato livello qualitativo. Lo spettacolo risulta quindi uno dei frutti più maturi della invidiabile preparazione del Katona József Szinház che, nata solo nel 1982 e cresciuta sotto le cure del sistema teatrale ungherese, è tra le maggiori compagnie teatrali europee contemporanee.
Visto al Teatro Due, Parma
Agnese Bellato