Recensione di Teatri di Vetro, Roma.
Il secondo giorno di fermenti artistici per il festival Teatri di Vetro vede protagonisti nuove realtà della scena contemporanea, a cominciare dalla compagnia Semivolanti che ha portato in Piazza Bartolomeo Romano il Pulmino Fiat Theatre: un teatro in miniatura in cui vengono realizzate brevi scene, della durata massima di cinque minuti, per un gruppo molto ristretto di spettatori, che può variare a seconda dello spazio lasciato libero dalla performance all’interno dell’abitacolo. Il pubblico è incuriosito dalla novità, dal voler vivere un‘esperienza singolare e intima con gli attori che si alternano nel pulmino. Non so in quanti siano riusciti a soddisfare a pieno la propria curiosità, perché realizzare brevi scene spesso richiede una precisione e un’attenzione per i particolari maggiore rispetto a quella che si ha nella realizzazione di spettacoli di lunga durata.
Dal pulmino alla platea del Palladium la distanza è breve. Stasera la compagnia Città di Elba mette in scena Pharmakos. Una struttura di plastica trasparente ingabbia una giovane donna sdraiata su un lettino ospedaliero, immobilizzata con tubi che ricordano quelli delle flebo. Uno spettacolo che parla per immagini forti, facendo del linguaggio del corpo il protagonista indiscusso. Un fisico esile di donna che vive in uno stato di malattia, di dipendenza da farmaco, di rapporto ossessivo con la propria immagine riflessa. Indossando un vestito bianco candido interpretauna giovane sposa, ma anche l’abito diventa una costrizione. Il ruolo di sposa e di madre vengono rifiutati. La donna si colpisce ripetutamente l’addome nel tentativo brutale e doloroso di provocarsi un aborto. Il suo vestito si colora di rosso sangue e il feto ha le sembianze di un volatile che viene violentemente spennato, accoltellato e bruciato dalla donna. Le scene si susseguono creando un’atmosfera rituale. Un rito solitario, incondivisibile le cui tracce vengono buttate via e il cerchio si chiude tornando alla scena iniziale. Uno spettacolo affidato interamente alla centralità del corpo e ai quadri che attorno a questo si compongono. Un uso della parola quasi del tutto assente, che quando interviene spezza e svalorizza ciò che il corpo da solo ha comunicato. Cosa resta di tutto ciò allo spettatore? Forse la sensazione di aver assistito a qualcosa di già visto, di già vissuto. Molto teatro degli Anni ’90 non ha fatto altro che mettere in scena il corpo e sviscerarlo, puntando all’aggressione del pubblico e allo shock. La cruda rappresentazione della malattia e della follia hanno riempito i palchi per troppo tempo, non sarebbe forse oggi più innovativo tornare a riflettere sul senso e sul significato, sul messaggio?
Un lavoro diametralmente opposto al precedente lo portano in scena Ettore Giuradei e Michele Beltrami con Cabaret Godot. Una coppia, che ricorda quella di Didi e Gogo di Aspettando Godot, che vive nella perenne condizione di attesa, rappresentando l’insensatezza della vita dell’uomo, la sua incapacità di comunicare. Giuradei e Beltrami sanno bene cos’è la comunicazione e come usarla in presenza di un pubblico eterogeneo. Un umorismo che si costruisce attraverso lotte verbali, a suon di sillabe e parole. Vengono alla mente Petrolini che “ti burla in ton garbato” e anche Troisi che sui fraintendimenti ha puntato spesso per il suo umorismo. Uno spettacolo piacevole, in cui i due attori risultano talmente padroni della situazione da riuscire a dare spazio all’improvvisazione.
Questa seconda serata si è conclusa con Interno Abbado della compagnia Itermini, interpretato da Giandomenico Cupaiolo. Siamo a Foggia, un organetto suona musiche popolari, un uomo vestito da donna racconta una storia coniugale dai risvolti misteriosi. Lei si chiama Rosa, rappresenta lo stereotipo della donna del sud, ossessionata dalla vita di provincia, da ciò che la gente può pensare di lei. Sente su di sé gli sguardi opprimenti dei parenti, anche di quelli morti.
Nella sua vita da casalinga i bei ricordi sono tutti legati ai momenti passati col marito Carlo, sparito da più di un anno e che scopre essere ancora vivo ma nascosto sotto mentite spoglie. La struttura del monologo ha come modello la scena finale di Psycho di A. Hitchcock in cui Norman Bates assume le sembianze dell’adorata madre. Alla fine si scopre che in realtà Rosa è morta, uccisa da Carlo che ha preso fisicamente il suo posto, indossando i suoi abiti e i suoi gioielli. Il delitto è il risultato di un matrimonio opprimente, in cui Carlo si sentiva in gabbia. Solo l’omicidio poteva cambiare la situazione. Uno spettacolo dalla regia ben costruita e con Cupaiolo in una eccelle
nte prova d’attore. Un ritmo serrato tenuto vivo soprattutto dal corpo e dalla voce dell’attore capace di tenere sempre alto l’orizzonte d’attesa e di catalizzare lo sguardo del pubblico sulla sua figura.
Valentina Piscitelli