Recensione de Il mare in tasca – scritto, diretto e interpretato da César Brie
Sono rari gli artisti che con sensibilità e tenacia vogliono provocare e smuovere lo spettatore e ancor meno sono quelli che riescono a farlo con abilità, cura e rispetto.
Uno di questi è l’argentino César Brie, che con Il mare in tasca apre mente e anima sul palco, offrendo un’articolata riflessione sulla vita in teatro e non solo. Brie si presenta come un attore (se stesso) che in seguito ad un incubo – in cui vive da protagonista l’episodio del rinnegamento di San Pietro – si risveglia letteralmente nella veste di prete cattolico. Imprigionato nel nuovo ruolo comincia un dialogo con Dio (interpretato dall’attore stesso), uno scontro tra Brie e Brie, in cui viene interrogato il senso di ogni cosa: si mette in discussione l’identità dell’attore e quella del personaggio, il perché del ruolo che si svolge, l’importanza delle relazioni che si creano in scena (e come auto-ironizza César Brie rivolgendosi a se stesso: “Hai sempre detto che il teatro è fatto di relazione. E sei qui da solo!”), e infine il cambiamento.
Quindi una riflessione sull’agire teatrale, ma anche e soprattutto una riflessione sulla vita. Vita che il teatro ha spesso la capacità di mostrare, a volte riflessa, altre volte distorta o amplificata, solitamente nell’intento di chiarire aspetti del nostro vivere. Nel caso de Il mare in tasca aspetti molto profondi, normalmente forse ignorati nella sempre più occupata e frenetica quotidianità in cui ci si immerge, dimenticando di lasciarsi il tempo per pensare. Solo un artista sensibile e acuto può far intuire e scorgere questi aspetti, sempre se però lo si ascolta con apertura. L’attore argentino si sdoppia abilmente e con grande ironia nel dialogo tra umano e divino, con provocazioni ed episodi dissacranti sulla religione cattolica, fino alla riflessione sull’aspetto sacrificale del ruolo dell’attore che con la sua professione sceglie di donarsi.
Assunto il ruolo di prete, Brie comincia ad assolvere i peccati degli spettatori: le ipocrisie, i tradimenti, le vigliaccherie e le stupidità, indicandoli, accusandoli e assolvendoli uno ad uno. Brie si investe di un ruolo nel quale esprime con ferocia il proprio giudizio, esponendo chiaramente ed intelligentemente cosa pensa del desolante spessore umano e dell’incoerenza della nostra evoluta e civile società occidentale (e italiana in particolare).
Quando faticosamente riuscirà a togliersi la lunga tunica (una prigione fatta di bottoni) paleserà l’inutilità della snervante operazione, rivelando sotto alla veste una tunica uguale alla precedente: “Ma non è cambiato niente!” dice, forse perché umanamente tutti cerchiamo di toglierci ‘l’abito’ che ci identifica agli occhi degli altri, ma inutilmente, perché in fin dei conti siamo sempre noi stessi, sempre uguali a noi stessi.
L’interrogazione costante stimolata da Brie riguarda tutti gli ingranaggi dell’organismo teatrale: il ruolo della mente creatrice (regista-autore / Dio), la vita in scena dell’attore che sul palco nasce e poi muore ad ogni replica; fino al pubblico che l’artista argentino ricrea in scena con delle marionette sedute su una piccola panca posta di fronte a lui. I pupazzi schierati sono il pubblico, il quale, solo in quell’istante (nel vedersi rappresentato), realizza la relatività del proprio sguardo e la semplicità della propria natura composita, formata da singoli e piccoli individui che osservano. Ma Brie prende in spalla lo spettatore, vuol farsene carico, con cura, fino a rimboccargli le coperte.
L’artista con questo spettacolo affronta i fantasmi del proprio passato e dell’infanzia: così come con la religione, si imbatte nell’immagine della madre, la cui enorme veste bianca pende a destra sul palco, finché l’attore stesso la indossa e ne interpreta così il ruolo. Lo spazio è organizzato con semplicità ed efficacia: vengono proposti pochi elementi duttili a creare ambienti che vengono poi smontati e trasformati. In particolare, in scena vengono utilizzate sostanze e simboli di valenza religiosa: il vino che viene versato, il grano disperso a terra, fino ad una splendida colomba bianca. Le atmosfere sono evocate attraverso la luce e soprattutto dalla bravura dell’attore.
Con un breve racconto poi, Brie riesce ad affrontare il delicato dibattito sull’accanimento terapeutico ed eutanasia: destabilizza lo spettatore esprimendo l’assurdità del dover dare la morte a chi non è più in reale vita per permetterne la pace. Grande rabbia ed energia vengono sprigionate in una danza che è un vortice di disperazione. La performance è totalmente fusa al suo artefice che attraverso il canto, la voce e uno sguardo di fuoco, incanta.
“Cerco un porto, alla fine del mio viaggio e spero di trovarlo nei vostri sguardi.” César Brie conclude il suo racconto augurandosi di poter buttare l’àncora: così come ogni racconto e ogni viaggio hanno un inizio e una fine, così l’attore con la sua storia spera di trovare una meta negli occhi dello spettatore, di sostare temporaneamente nella loro mente attenta, magari entrare nel loro cuore e perché no, rimanere nella loro memoria.
Visto al Centro Culturale Candiani, Mestre
Agnese Bellato