Una città in bilico

Recensione di WBNR: What Burns Never Returns – Ooffouro

In un viaggio di ricerca, in otto tappe, che parte dalla lontana Cina per tornarvi a conclusione dei lavori, gli Ooffouro, per la settima platform di WBNR approdano nella città lagunare, da sempre ponte tra quell’occidente nel quale il gruppo nasce  – a Cagliari – e quell’oriente che da tempo stanno scoprendo. Presentato in forma di prova aperta al Teatro Fondamenta Nuove, la coreografia di Alessandro Carboni  ha tutto l’aspetto di uno spettacolo realizzato, a lungo elaborato e di grande effetto.

Sul palco una sorta di plastico urbano, ma dall’equilibrio precario, perché i 3293 rettangoli di legno che vanno a stilizzare una città come tante, sono appoggiati in equilibrio sul pavimento, in fila, come i pezzi di un domino. Gli elementi sono raccolti in un quadrato, e sono di tre misure diverse a rappresentare la divisione del lavoro, condotto in scena da Matteo Garattoni, in tre parti.

Rettangoli piccoli, i più numerosi: il corpo si muove orizzontalmente, rasentando il pavimento. I gesti sono lentissimi, fluidi, rispettosi, ma con garbo spezza la geometria perfetta della costruzione, scansa con un braccio i tasselli per cercare uno spazio adatto a sé. Si sdraia, poi subito torna in ginocchio a osservare lo spazio, e crearsi il suo. Il corpo trova sempre nuove posizioni, e quindi ogni volta deve dar vita a un vuoto in cui creare una nuova forma. Per un attimo tenta di entrare anch’esso nella geometria rigida del plastico, con i palmi delle mani e dei piedi che divengono elementi verticali della città, ma il tentativo fallisce: la fluidità e l’energia del corpo non riescono a essere cristallizzati in una simmetria immobile. L’unica soluzione è celarsi dietro i ‘palazzi’ più alti della scenografia.

Rettangoli medi, in legno chiaro: man mano che si fa spazio tra essi, il corpo sembra ricevere una nuova spinta che lo porta verso l’alto. I movimenti si fanno un po’ meno lenti, dal chiaro sapore orientale, portandolo spesso in posizione verticale. Ogni pezzo di legno abbattuto genera in lui una coreografia sempre più articolata, viva.

Rettangoli grandi: li si sente cadere ad uno ad uno, nel buio più completo. Il risultato di questa ultima fase di ‘occupazione’ di quello spazio limitato e limitante costruito con tanta perizia è svelato solo per un istante di luce finale: il corpo è pienamente vitale, rapido, libero di muoversi, in verticale, nell’aria, ma fermo sul posto. Come se, ora che non ha più bisogno di conquistarsi uno spazio, non trovasse più la necessità di muoversi davvero. Il corpo umano diviene così pura energia, fluido vitale, ma senza direzione né condivisione: questo atto finale avviene interamente svolto dando le spalle al pubblico.  D’altronde, What Burns Never Returs: ciò che brucia non fa più ritorno. All’interno del suo percorso il corpo ha lentamente preso vita, togliendola, in qualche modo, alla struttura perfetta della costruzione, che vediamo lentamente distrutta a seguito del passaggio umano. Ma, alla fine, anche il corpo, dopo l’ultima vampata, si smaterializza.

Contribuiscono enormemente all’atmosfera di tutto il complesso lavoro coreografico le sonorità realizzate dal vivo al vibrafono da Stefano Tedesco. Lo strumento viene percosso, accarezzato con un archetto, strisciato con lime di ferro; i suoni sono campionati e immediatamente riproposti, amplificati, ripetuti. Alle note dello strumento di uniscono in un gioco di eco i colpi dei legni che cadono in scena, creando una sorta di concerto parallelo e complementare allo spettacolo di grande efficacia ed indiscussa bellezza.

Visto al Teatro Fondamenta Nuove, Venezia

 

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