Recensione di My Arm – Accademia degli Artefatti
In un silenzio che sembra portare con sé qualcosa di sacro, una vecchia pellicola proietta sul fondale del palco del Teatro Fondamenta Nuove le immagini di un bambino cicciottello, felice e senza pensieri, circondato dall’affetto famigliare. Si prova una dolce sensazione malinconica, consapevoli di vedere un frammento di un passato gioioso, di una piccola storia che non è più e che non tornerà. Ma se lo spettatore si stava già crogiolando nella tristitia è subito costretto a rimescolare le sue sensazioni: le luci si accendono e il protagonista della serata, seduto comodamente in platea, scatta in piedi chiedendo se ‘vogliamo iniziare’. Strano modo di partire per uno spettacolo. Ancora più folle se l’attore chiede direttamente agli spettatori di dar libero sfogo ai loro pensieri, creando delle associazioni con ciò che si è appena visto, e per lo più se si fa consegnare degli oggetti personali per farli diventare complementari alla scena. Tutto previsto dal testo My Arm del drammaturgo inglese Tim Crouch che, riproposto dall’impeccabile compagnia dell’Accademia degli Artefatti, lascia spiazzati e spiazza continuamente, diverte e fa sorridere rendendo partecipe il pubblico alla storia personale, e assurda, di un ragazzo trentenne morto e vivo allo stesso tempo. È infatti un brillante Matteo Angius a dare vita a questo monologo che racconta di come da bambino abbia deciso di tenere il braccio sollevato sopra la testa per poi non tirarlo più giù, incuriosendo e irritando insegnanti dapprima, facendo disperare i genitori e i medici poi, per finire con il divenire un richiesto soggetto artistico e protagonista di opere d’arte. Ma la ‘Signora oscura’ si insinua dentro quel suo braccio atrofizzato, distruggendo i suoi organi interni e portandolo lentamente alla morte: lo spettacolo così si svolge come un paradosso, dal momento che chi narra dovrebbe trovarsi già nell’aldilà. Sospeso tra verità e finzione, Matteo persona-attore-personaggio esce da se stesso, declinando la sua parte e affidandola a un pupazzetto ripreso da una telecamera live e proiettato in un piccolo schermo alle sue spalle: continuamente veste e getta i panni del protagonista, creando una situazione assurda e cercando la complicità di chi sta in sala, con sguardi e battute ad hoc. Geniale la trovata dello schermo sul fondale del regista Fabrizio Arcuri, fondatore storico della compagnia: un video registrato mostra Matteo che con la sua gestualità dialoga con il protagonista in scena, commentando in silenzio ciò che viene raccontato. L’altro da sé, presente già nel pupazzetto col braccio alzato, continua a moltiplicarsi in modo schizofrenico: sulla scena si hanno così ben tre rappresentanti dello stesso personaggio ma sempre un unico attore bravissimo a far combaciare il suo mondo fatto di parole con quello delle immagini dato dal video – curato da Lorenzo Letizia – che continua a scorrere, battendo il tempo come un metronomo. Tempo che è anche scandito dalle musiche suonate con la chitarra elettrica da Emiliano Duncan Barbieri: dei brani rock inconfondibili come Knockin’on heaven’s door, Anarchy in the UK, Smells like teen spirit riportano a degli anni specifici, accompagnando Matteo nella rievocazione di alcuni episodi della sua vita.
Lo spettacolo, che insieme ad An oak tree fa parte del progetto Ab-uso, consegna un gioiellino impeccabile, un orologio svizzero fatto ad arte che si mette in discussione ogni sera, proponendo delle continue ipotesi, creando nello spettatore uno spiazzamento in grado di mettere in crisi il suo punto di vista e confondere il piano della realtà con quello della finzione. Un teatro che sorprende e lascia piacevolmente perdere le coordinate.
Visto al Teatro Fondamenta Nuove, Venezia
Camilla Toso