Recensione a Risveglio di Primavera di Tommaso Tuzzoli
Il Nuovo Teatro Nuovo di Napoli si dimostra, sempre più, attento a far emergere e promuovere nuove idee: la creatività di giovani e audaci interpreti del teatro classico o l’intraprendenza di originali drammaturgie nate dall’urgenza di raccontare il presente. Proprio al Nuovo ha fatto la sua gavetta Tommaso Tuzzoli che, dopo essere stato assistente di Antonio Latella, decide di dedicarsi alla regia, e proprio al Nuovo deve la produzione di tre suoi spettacoli. Dopo le Nuove Sensibilità, è l’ultima di queste produzioni, il suo allestimento del Risveglio di Primavera di Frank Wedekind, ad inaugurare la stagione 2009/2010 del Teatro Nuovo.
È il 1891 quando Frank Wedekind scrive il Risveglio di Primavera, una tragedia di adolescenti. Anticonvenzionale e antiborghese, Wedekind si guadagnò il bando sociale per la scabrosità dei suoi testi; si oppose con forza alle costrizioni morali ed etiche imposte, mettendo a nudo, con sguardo commiserevole, un sistema sociale incoerente, pronto a chiamare in causa Dio ma solo per falso spirito cristiano. Risveglio di Primavera è un testo che parla dei giovani, del sesso, dell’educazione e dell’ipocrisia, quella di tutti coloro che, in nome di una presunta moralità, preferiscono nascondersi dietro un comodo silenzio. Tommaso Tuzzoli trasforma questo silenzio in una presenza scenica immergendo i personaggi in un buio fitto per poi trarli da esso tramite caldi tagli di luce che disegnano i corpi e danno la parola. Il perfetto disegno luci di Simone De Angelis avvolge gli attori facendoli emergere su una scena pressoché vuota, circondati da pile di libri che richiamano al dovere. La complessa operazione di adattamento sintetizza e inasprisce questo dialogo tra il mondo degli adolescenti e quello degli adulti, amplificando così il ruolo emblematico dei personaggi, ognuno portatore di un sentire attraverso cui lo spettatore si può riconoscere. I cinque atti originari si riducono a tre e i circa trenta personaggi a otto, ma fortemente caratterizzati, come i professori, che perdono i nomi stravaganti del testo (Grossorandello, Colpodilingua, Moscamorta) ed esasperano con toni da farsa la condanna senza remore al demistificatore dell’ordine morale, Melchior. Lui è l’emarginato, il reietto, ma forse l’unico che riesce a salvarsi; tra chi soffre sopportando passivamente e chi soccombe, Melchior non si lascia intimorire, ma soprattutto non si lascia mettere a tacere. E l’interpretazione di Silvio Laviano aggiunge passionalità al personaggio mantenendo la parte con intensità fino alla fine. Un armonioso lavoro di gruppo per gli attori che, tuttavia, trovano lo spazio per emergere singolarmente, come lo stesso Laviano, come il Moritz di Andrea Capaldi o il Direttore/Martha di Caterina Carpio.
Senza inneggiare al nichilismo, Wedekind invita ad una riflessione profonda su quello che siamo e quello in cui crediamo perché l’unica morale che conta è quella che ci costruiamo da soli, il prodotto concreto tra due entità astratte: dovere e volere.
Visto al Nuovo Teatro Nuovo, Napoli
Stefania Taddeo