Recensione a Macadamia Nut Brittle – di ricci/forte
Gli attori già in azione accolgono il pubblico in sala, come se il ciclo performativo non si riducesse allo spettacolo che sta per cominciare, ma lo precedesse e lo continuasse, al di là del tempo (e forse dello spazio teatrale). Si ripetono movimenti in sequenza, in silenzio, tutti uguali per i tre interpreti (Fabio Gomiero, Andrea Pizzalis, Giuseppe Sartori), mentre sembra di essere calati in qualche remoto avamposto di un taylorismo dal retrogusto mejercholdiano. E invece, quando attacca l’audio, si scopre che ad introdurre lo spettacolo sono le appuntite coreografie da hostess, quelle viste e straviste con un briciolo segreto di terrore alla partenza di tanti aeroplani. Già qui il canone (teatrale, culturale, sociale) trema, e con esso la mente dello spettatore, felicemente spiazzata da un incipit che si scopre essere il puntello destinato a crepare confini concettuali, certezze estetiche e convenzioni comode, teatrali e non.
In Macadamia Nut Brittle, spettacolo di Ricci/Forte del 2009, va in scena – senza mezzi termini – il contemporaneo. Con tutte le sue “sgargianze” e le sue contraddizioni, gli slanci rivoluzionari e i pigri affondi in divano, gli immaginari onnivori e quelli integralisti, insomma con tutta l’isteria bifronte (vitalistica e depressiva) del postmoderno. Lo sguardo dei due autori e registi romani ne restituisce un blob densissimo ed esplosivo, che si concretizza in uno spettacolo ad andamento rizomatico che chiama in causa qualsiasi – davvero! – elemento-chiave dell’epoca attuale. Il focus sull’adolescenza, con tutti i suoi preziosi e dilanianti riti di passaggio all’età adulta, oggi un po’ perduti e un po’ estremizzati, è soltanto una delle spinte di senso che percorrono la drammaturgia di Stefano Ricci e Gianni Forte, un territorio nucleare in cui lo straniamento di brechtiana memoria è mutato a specchio, attraverso il linguaggio degli sms e l’esposizione impietosa dei corpi, mentre ogni nodo deflagra in un affondo in filigrana ulteriore, in cui a volte si rischia – e forse è legittimo – di perdersi, fra approfondimenti e corrispondenze del tutto personali. In questo lavoro si incontrano, in un sapiente andirivieni di rimandi, Wonder Woman (è il costume di Anna Gualdo, unica interprete femminile) e il Nesquik, i concorsi di bellezza, il recente crollo di Pompei, i Simpson e il finale di Titanic. E poi tutta la carrellata televisiva, con cammei, anche minuscoli, per ogni serial di culto (dagli intrighi ormai archetipici di Beautiful all’autonomia interattiva di Lost e Grey’s Anatomy) ed emblemi tratti dalla spettacolarizzazione dell’informazione, telequiz, reality e cartoni animati all’ultimo grido, fra personaggi appena citati e altri a cui è riservato quasi un ritratto in questa galleria degli orrori estremamente familiare. E la lingua, poi, la lingua: un idioma misto che divora tutto, che si contamina delle sintesi acrobatiche internettiane e rilancia verso un lirismo di grande tradizione, si cala poi in quell’inglese prêt-à-porter che allarga (e allo stesso tempo assottiglia) le comunicazioni di questi anni, per finire poi con l’ustionare sintassi e semantica con parlateborgatare, certo romanesche d’origine, ma italiane d’adozione, appartenendo a tutte le deformazioni linguistiche della provincia italiana, sospesa com’è fra slanci internazionali semplificati e un dialetto che non (ri)conosce più. E poi, e poi… E poi «ci sono io – dice la lucentissima Gualdo – che non trovo forma e mi sciolgo nelle serie tv». Perché, a far da contrappunto a quella che sembra un’ossessionante violentissima playlist del meglio del peggio del trash contemporaneo, in mezzo al blob incalzante di inconsistenze ormai mitologiche, si trovano enormi affondi personali, monologhi a doppio taglio che prendono di sorpresa in mezzo alla sfilata delle allucinazioni. L’accelerazione dell'(an)estetica contemporanea che si muove per accumuli vertiginosi, in scena, è costellata, con sempre maggior frequenza da assoli di una forza feroce: una foga di travolgenza quasi tribale intessuta di lunghi momenti immobili, lancinanti. Se inizialmente quel che resta del personaggio è frantumato nelle diverse voci e nei vari corpi che gli danno vita, man mano, al centro della mattanza pop insorgono persone vere e al centro dell’attenzione è condotta la singola, irriducibile, solitudine individuale – ancora più di atroce evidenza in seguito a una delusione, a un abbandono. C’è la perdita dell’altro (e dunque di sé) che incombe su tutti e il pubblico non è escluso.
Ma sulla scena come nella vita il volume è troppo alto – ed è lì che l’individuo si perde; i gesti sono rimarcati in caricature dell’umano, i movimenti frenetici, accelerati, ripetuti e ripetitivi – e là la singolarità, come la società, è minacciata; tante immagini di grande forza e molteplici decolli di poesia, moltissima violenza e iper-realismo grottesco; tanti i colori e troppi i rimandi, fra accumuli di immedesimazione e imprevisti che allontanano: tuttotutto troppo, insomma. E tanto in teatro quanto nella realtà la concentrazione diventa una fatica irrealizzabile, la completezza un miraggio, la partecipazione si dissolve in un Io che rapisce e poi si ritrae. Ripercorrere la voracità dell’impilarsi delle tante scene – alcune, davvero, di rara potenza – che si succedono a ritmi sempre più feroci, sarebbe una scommessa pericolosa e forse inutile: c’è il momento in cui, tutti in pose sempre più aggressive, gli attori raggiungono sgomitando, sempre più violenti, l’arco di proscenio; c’è il passaggio del girotondo, la mutilazione straziante di un bianconiglio a grandezza umana e una scena in cui si racconta la tragedia dell’abbandono dopo l’entusiasmo di un incontro d’amore occasionale; sì, in un’epoca in cui si minaccia la fine della storia, in questo spettacolo ci sono tante, tantissime, storie finite (male). Innanzitutto la propria – e il destino non può essere altro che un lago di sangue, metaforico o reale che sia. Salvo poi essere inseguito – e questo è un nodo che rischia di depotenziare le spire del lavoro – da una conclusione ulteriore, e un’altra e un’altra, che tanto sul palco quanto nella vita, sembra non risolversi, rimandando il finale, con tutta questa varietà di chiusure possibili, a tempi migliori.
In Macadamia Nut Brittle – spettacolo nel bene e nel male schiacciante sul crinale fra coinvolgimento e autoreferenzialità, a volte troppo lungo o dilungato ma che (di)mostra in ogni caso schegge di verità strazianti, la cui forza va accreditata all’empatia instancabile dei quattro attori – riecheggiano i rischi ben noti di quella condizione post-moderna che cerca rigenerazione nel movimento ciclico perché non può trovarla nell’invenzione; che, non riuscendo ad andare avanti né indietro, fa della declinazione di sé la possibilità più esclusiva di sopravvivenza; che, infine, registra il contemporaneo senza potersi o volersi schierare. Ma il fatto di portarlo in teatro – tanto più in un Teatro come il Goldoni – e di fare un passo indietro, senza apparentemente giudicare o reagire a quel mondo, come ad includervisi, è già per sé una presa di posizione non indifferente.
Visto a EXTREME.TEATRO – sala In.Off del Teatro Goldoni, Venezia
Roberta Ferraresi
Ripercorrere la voracità dell’impilarsi delle tante scene, che si succedono a ritmi sempre più feroci, sarebbe una scommessa pericolosa e forse inutile: c’è il momento in cui, tutti in pose sempre più aggressive, raggiungono sgomitanto, sempre più violenti, l’arco di proscenio; c’è il passaggio del girotondo, la mutilazione di un bianconiglio ad altezza umana e una scena in cui si racconta la tragedia dell’abbandono dopo l’entusiasmo di un incontro d’amore occasionale; sì, in quest’epoca in cui si minaccia la fine della storia, in questo spettacolo ci sono tante, tantissime, storie finite male. ………….elenco……………sotto gli occhi tutti i giorni………fanno questo……….
La singola, irriducibile, solitudine individuale – ancora più di evidenza lancinante in seguito a una delusione, a un abbandono. C’è la perdita dell’altro (e dunque di sé) che incombe su tutti e il pubblico non è escluso.